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70 anni dall'indipendenza dell'India

Settanta anni fa, esattamente il 15 agosto 1947, l’India, il più grande paese dell’Asia dopo la Cina, diventò indipendente dal Regno Unito. Probabilmente fu il giorno che sancì davvero la fine del primato coloniale europeo sul resto del mondo.

La seconda guerra mondiale era finita due anni prima, nel maggio del 1945, e già a quell’epoca era diventato chiaro a tutti che l’Europa usciva fortemente ridimensionata dal grande conflitto, mentre veniva sancita la nuova supremazia mondiale di Stati Uniti e Unione Sovietica, le cui truppe avevano occupato quasi tutta l’Europa. Tuttavia, nel ’45 Londra era ancora a capo di un vasto impero che comprendeva il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda, vari stati africani (tra cui Kenya, Nigeria, Rhodesia/Zimbabwe, Sud Africa, Sudan, Uganda…), molte isole dei caraibi (tra cui Bahamas, Barbados, Bermuda, Giamaica), presidi in Asia, come Ceylon, Hong-Kong e Singapore, e altro ancora (per esempio, Cipro e Gibilterra). L’India era considerata “la perla dell’impero” britannico e la perdita del controllo su quel grande paese fu un trauma per l’Inghilterra, anche se era stata proprio Londra a decidere di tagliare il cordone, in modo pacifico.

La storia della penetrazione inglese in India risale al 17° secolo, quando la regina Elisabetta I accordò alla neonata Compagnia Inglese delle Indie Orientali un monopolio su tutti i commerci da e verso l’oceano indiano, per una durata di 21 anni. Correva l’anno 1600 e l’India a quell’epoca era una grande potenza economica, visto che generava un quarto del Pil mondiale. Il grande paese era sotto il dominio della dinastia Moghul, la quale aveva preso il controllo dell’India già nel 1526 con l’imperatore Babur il Conquistarore, re islamico discendente da Tamerlano. La dinastia aveva creato una singolare miscela di islamismo e induismo e rimane famosa nei libri di storia per lo sfarzo della corte e la grandiosità dei monumenti. Essa regnò sull’India formalmente fino al 1806, ma – di fatto – fu esautorata molto tempo prima. Infatti, già nel 1737 il regno rivale dei Maratha, collocato al centro dell’India, aveva sopraffatto l’esercito Moghul e messo fine al suo dominio.

Con l’Indian Act del 1784, il l’Inghilterra concesse alla Compagnia delle Indie il potere di agire in nome e per conto della corona. Grazie a questo avamposto civile, l’esercito inglese, guidato dai governatori generali della Compagnia, iniziò a penetrare in vari punti all’interno del vastissimo territorio indiano. Nel 1818, l’Inghilterra, tramite la Compagnia, ormai controllava la gran parte dell’area, dopo aver sconfitto i principi Maratha e altri regni locali minori. Restava fuori l’impero Sikh, collocato nell’estremità nord ovest, che però fu sconfitto dagli inglesi nel 1849. Dopo una vasta rivolta popolare, la corona inglese sciolse la Compagnia e governò direttamente tutta l’India, pur lasciando formalmente in vita circa 21 regni e principati locali. Nel 1858 Londra varò la legge che trasformava l’India in una colonia affidata al governo di un Vicerè, con capitale Calcutta.

L’impero britannico, nel corso di un secolo e mezzo, diede all’India una lingua comune, a fronte di centinaia di lingue locali, un sistema giuridico e giudiziario moderno, una grande rete ferroviaria, un sistema scolastico, un sistema di pesi e misure, una rete di telecomunicazioni. Tuttavia, l’insofferenza indiana per il dominio inglese non venne mai meno. Nel 1921, l’Inghilterra promulgò una nuova costituzione per l’India, alla quale veniva concessa maggiore autonomia, ma restava fermo il principio che il governo di Delhi doveva render conto del proprio operato al parlamento britannico. Il solco profondo tra gli inglesi e il movimento nazionalista indiano non fece che aumentare. Tutto sarebbe potuto esplodere in una gigantesca rivolta nazionale, se non fosse vissuto in quegli anni un uomo gracile, mansueto, ma con una volontà di ferro: Mohandas Ghandi. Giovane avvocato formatosi a Londra, prese progressivamente in mano le sorti del paese e, adottando il metodo della protesta non violenta, riuscì a persuadere gli inglesi che la migliore scelta era separare l’India dall’impero britannico.

Furono i laburisti, guidati dal primo ministro Clement Attlee, a decidere, nel 1946, che non era più possibile il dominio sull’India, sia per la crescente opposizione locale sia per le esauste finanze del regno, fortemente provate dalla seconda guerra mondiale. L’ultimo vicerè dell’India, lord Louis Mountbattem (che poi sarà ucciso dai terroristi dell’Ira nel 1979), fissò la data dell’indipendenza al 15 agosto, lo stesso giorno in cui, due anni prima, l’imperatore del Giappone aveva annunciato la resa del suo paese. L’indipendenza dell’India comportava anche la creazione del Pakistan, uno stato indipendente a nord nel quale far confluire i musulmani dell’India. Purtroppo, la demarcazione di confine non fu soppesata con attenzione dagli inglesi e il risultato fu una lunga serie di violenti massacri tra le comunità islamiche e quelle indù, con centinaia di migliaia di morti. Le stragi dell’epoca hanno lasciato un segno indelebile e scavato un fossato profondo da India e Pakistan, ormai eterni rivali.

Tuttavia, l’India è tornata da allora ad essere una grande potenza economica, collocandosi oggi al terzo posto dietro Stati Uniti e Cina. L’India fa parte del Commonwealth ed ha eccellenti rapporti col Regno Unito. L’unica diatriba rimasta sul terreno riguarda le origini profonde dello sviluppo indiano in questi ultimi 70 anni: alcuni storici inglesi ritengono che le fondamenta risiedano nell’impostazione giuridica e istituzionale che l’Inghilterra diede, o impose, all’India; al contrario, i loro colleghi indiani sono convinti che l’India abbia saputo trovare al suo interno le forze morali e intellettuali per questa spettacolare rinascita.

Gli storici di domani saranno forse meno coinvolti emotivamente e magari saranno capaci di scrivere una storia dell’India che risulti oggettiva e completa, anche a rischio di far dispiacere ad una parte o all’altra.

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