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Contro il reddito di cittadinanza: smettere di lavorare porterebbe alla catastrofe

Al contrario di quanto affermano i teorici del reddito di cittadinanza, per gli esseri umani lavorare non è semplicemente una scelta. Sebbene venga spesso considerata un’attività piuttosto spiacevole, la maggior parte delle persone riconosce che lavorare è necessario, e persino utile: non solo per “guadagnarsi da vivere”, ma anche per arricchire sé stessi, acquisire conoscenze e competenze, socializzare e creare relazioni con gli altri; in breve, per diventare più umani. Invece, è opinione universalmente condivisa che la disoccupazione sia una calamità, e che un bambino che non si impegna negli studi andrà presto incontro al fallimento scolastico, cosa che nessun genitore vede di buon occhio.

La teoria della “umanizzazione dell’umano” attraverso il lavoro è un tema che Kant, nel suo Trattato di pedagogia, aveva già sviluppato con particolare forza, spingendosi fino ad affermare che le nostre attività lavorative sono uno dei tratti specifici che distinguono l’essere umano dagli animali. Ne concludeva – credo giustamente – che è “di primaria importanza che i bambini imparino a lavorare. L’uomo è l’unico animale che deve lavorare. Ci si chiede allora: il Cielo non avrebbe reso la nostra vita migliore, e dimostrato maggior benevolenza, offrendoci ogni cosa già pronta, in modo che non fossimo obbligati a lavorare? Ebbene, a tale quesito dev’essere sicuramente data una risposta negativa: in realtà, l’uomo ha bisogno di occupazioni, e in particolare proprio di quelle che implicano delle costrizioni. È dunque sbagliato immaginare che se Adamo ed Eva fossero rimasti in Paradiso, non avrebbero fatto altro che stare seduti insieme, a cantare arie bucoliche e a contemplare la bellezza della natura. Sarebbero stati torturati dalla noia, come qualunque altro uomo in una simile situazione”.

È bene precisare che la valorizzazione dell’impegno e del lavoro, nata dopo la Rivoluzione francese, rappresenta una rottura radicale con tutte le filosofie di tipo aristocratico o eudemonistico (orientate alla felicità) che caratterizzano il pensiero antico. Nel mondo greco, aristocratico per eccellenza, solo gli schiavi erano destinati all’afflizione che l’obbligo di lavorare comporta, come sottolinea la filosofa tedesca Hannah Arendt in un testo che merita di essere citato tanto è in contrasto con quello di Kant. Gli antichi, scrive la Arendt, “ritenevano che si dovesse disporre di schiavi a causa della natura servile di tutte le attività necessarie a soddisfare i bisogni della vita […]. Il lavoro rappresentava la sottomissione alla necessità […]. Nel mondo antico, l’istituzione della schiavitù, almeno all’inizio, non fu né un modo per procurarsi mano d’opera a buon mercato, né un mezzo di sfruttamento da cui trarre profitto, ma piuttosto un tentativo di eliminare il lavoro dalle attività obbligatorie della vita. Le caratteristiche che l’uomo ha in comune con gli altri animali non venivano considerate umane. In realtà, l’animal laborans è solo una, sebbene la più alta, delle specie animali che popolano la Terra”.

Le antiche civiltà, dunque, reputavano lo schiavo più simile a un animale che all’uomo. Questo a dimostrazione di quanto la concezione del lavoro propria del mondo antico sia diametralmente opposta alla successiva filosofia kantiana, così come a quella dei padri fondatori della nostra tradizione repubblicana; la quale, al contrario, fa del lavoro il marchio stesso dell’umano, la sua differenza specifica rispetto all’animale. Fino alla Rivoluzione francese, l’aristocratico si definirà volentieri come colui che non “perde la propria vita per guadagnarsela”. Per noi, moderni repubblicani, è tutto il contrario: il lavoro, per quanto possa essere faticoso e apparentemente contrario alla felicità, è tutto tranne che un’attività animale, tutto tranne che il segno di una non appartenenza all’umanità. Non è soltanto l’attività specifica dell’uomo, e non soltanto la condizione necessaria alla sua sopravvivenza, ma è anche la condizione indispensabile alla sua umanizzazione. Perché, potremmo dire, è coltivando la terra, che coltiviamo noi stessi. Un uomo che non lavorasse, oltre che un uomo povero, sarebbe un pover’uomo. In tale situazione, quindi, poco importa che a volte il lavoro sia duro, perché ciò che conta è l’umanizzazione dell’umano, la socializzazione, la cultura di sé che passa sempre attraverso un’enorme quantità di sforzi. In altre parole, per un vero repubblicano, i valori essenziali sono la libertà e l’emancipazione; poiché l’umanizzazione dell’umano in tutte le sue forme, è infinitamente più importante della ricerca della felicità, che rimane comunque irraggiungibile.

Per questo, il reddito di cittadinanza è tutt’altro che una buona idea.

© Luc Ferry, 2017, Le Figaro