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Diseguaglianza non coincide con povertà: dimentichiamo la prima e concentriamoci sulla seconda

Il dibattito politico sulla povertà non verte affatto su questo tema, ma si è polarizzato intorno al concetto di disuguaglianza. La questione della povertà è oggetto di accese discussioni sin dagli anni ‘60, quando cominciavano a diffondersi le ideologie di sinistra, le quali hanno dirottato il tema della povertà verso quello della “deprivazione relativa”, prendendo completamente in contropiede i conservatori, da sempre accusati di provare una crudele indifferenza verso i poveri.

Si dovrebbe obiettare che le politiche mirate alla ridistribuzione del reddito e al raggiungimento dell’uguaglianza, o almeno alla riduzione della disuguaglianza, hanno ostacolato la crescita economica e reso il paese meno prospero, a discapito di tutti.

Ma è un argomento che i conservatori non utilizzano quasi più, non da ultimo per via della potentissima lobby determinata a mantenere prioritaria la questione della povertà relativa – la cui soglia è fissata al 60 % del reddito mediano di un paese.

La Joseph Rowntree Foundation, da quarant’anni impegnata in prima fila in questo dibattito, ha pubblicato di recente alcuni dati per dimostrare che il taglio ai sussidi e la stagnazione dei salari stanno trascinando un altro milione di persone verso la miseria.

Eppure, l’occupazione non è mai stata così elevata, la disparità di reddito è scesa ai livelli minimi dagli anni ’80, e gli indici di povertà estrema riportano valori inferiori al passato.

Il Centre for Social Justice, un think tank britannico (di orientamento conservatore – NdT), confuta le tesi del JRF sostenendo che per superare il concetto di povertà relativa occorre misurare la povertà utilizzando un criterio universale valido per tutti.

Per determinare il livello di povertà non è sufficiente basarsi solo sul reddito, ma bisogna considerare altri fattori, quali la disgregazione della famiglia, la scarsa istruzione, le inadeguate competenze professionali e la mancanza di aspirazioni che una condizione di sottomissione inevitabilmente genera.

È arrivato il momento di liberarsi del calcolo arbitrario della povertà relativa. Sarà forse utile come arma politica, ma impedisce di concentrarsi sui risultati che fanno davvero la differenza.

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LA NOSTRA OPINIONE

Il breve (e un po’ scarno) articolo del Telegraph evidenzia come il concetto di “giustizia sociale”, solitamente sbandierato dai partiti della Sinistra internazionale, può e deve essere fatto proprio dal mondo conservatore (qui rappresentato dal Centre for Social Justice). “Conservatorismo”, nella corretta accezione del termine, non significa la conservazione dei privilegi, meritati o meno, delle classi sociali ad alto reddito. Non vuol dire conservare una struttura sociale piena di sperequazioni e ingiustizie. Significa ben altra cosa, ovvero conservare i valori fondamentali dell’umanesimo occidentale, laico e cristiano. In breve: dignità della persona, libertà personale ed economica, sviluppo armonico di diritti e doveri, meritocrazia come criterio generale valido in ogni campo di attività (la Bibbia è fortemente meritocratica). In questo quadro, la lotta alla povertà non deve basarsi sulla mera redistribuzione dei redditi, ma nel favorire le condizioni materiali e morali che permettano ai meno abbienti di costruirsi il loro futuro, guadagnarsi il pane con piena dignità, contribuire alla collettività senza dover dipendere da sgravi e sussidi che - oltre una certa soglia e una certa durata – umiliano la persona, spegnendone la forza di volontà.

Il concetto di povertà relativa consiste nel misurare il reddito individuale in rapporto al reddito mediano di una società: se il reddito di Tizio è inferiore al 60% del reddito mediano, costui è povero. Tale approccio, strettamente monetario e comparativo/avversativo, è fuorviante: spinge tutti noi a credere che l'unica soluzione sia trasferire, con sussidi e sgravi, reddito ai meno abbienti, sottraendolo dal resto della collettività.

Invece, per un vero conservatore (e per ogni persona di buon senso), la vera “giustizia sociale” non consiste nello spostare i redditi da una classe all’altra, ma nel creare le condizioni perché le persone svantaggiate siano in grado di crearsi i propri redditi. Ciò significa scuole pubbliche di buon livello, case e quartieri popolari ben concepiti, raccolta rifiuti efficiente, servizi capillari di polizia, tribunali veloci, controllo dell’immigrazione (potenziale fonte di concorrenza “sleale” nei confronti dei meno abbienti). Non occorre una tassazione spropositata ed iperprogressiva, come quella attuale, per finanziare tutto ciò. Occorre una oculatissima gestione dei denari pubblici, affidata ad uno Stato magro ed efficiente, guidato da pochi ma ottimi dirigenti selezionati tra i migliori studenti in Italia e all’estero.

Paolo Renazzi de’ Ceveri

© Telegraph Media Group Limited (2017)