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I figli dei sessantottini diventano genitori “vecchio stile”

Per i figli dei sessantottini, l’infanzia e l’adolescenza non sempre sono stati facili. Abbiamo voluto incontrare alcuni rappresentanti di questa generazione che, spesso, pur non rifiutando in toto l’eredità del ‘68, sceglie di riabilitare nell’educazione dei propri figli alcune nozioni di ordine e di autorità con le quali in origine non aveva molta familiarità.

“Io sono il frutto della libertà lasciata marcire ai piedi dell’albero”. Cinquant’anni dopo, la rabbia e l’emozione di Aline sono intatte. Questa figlia di sessantottini non ritiene che i primi anni della sua vita siano stati “uno stato permanente di felicità”, come si poteva leggere sugli striscioni dei manifestanti, bensì come quello di una mancanza, tanto materna quanto paterna, di cui porta ancora i segni. Sicuramente, ciò non è accaduto a tutti i figli di questa generazione, ma a diversi livelli di intensità questa sensazione è ricorrente. “I miei genitori non mi hanno imposto mai niente. Di conseguenza, ho avuto spesso l’impressione di non essere sostenuta”, confessa Léa - 28 anni e “anarco-queer”[1], come lei stessa si definisce – senza per questo rinnegare l’eredità politica dei suoi genitori, specialmente di suo padre, ex-maoista che iniziò a manifestare all’età di 18 anni, nel 1968 appunto.

Si tratta di critiche, quindi, non di un rifiuto totale (cosa che capita di rado), mentre il termine “sessantottino” col passare degli anni ha acquisito una connotazione sempre più negativa. “Il movimento ‘68 è uno strano miscuglio di aspirazioni edonistiche e libertarie, con un bolscevismo avanguardistico che ha scimmiottato in forma caricaturale e derisoria (…) le rivoluzioni del passato”, spiegava il sociologo Jean-Pierre Le Goff[2] nel saggio La Gauche à l’agonie (2011 – “L’agonia della sinistra”, non pubblicato in Italia - ndt).  

Camille, infermiera di quarant’anni residente a Bordeaux con due figli, aggiunge: “Che lo si accetti o meno, siamo nati nel ’68. Il problema è come educare i nostri figli, senza rinnegare del tutto quell’epoca". Camille ci racconta la sua ricetta: “Ho cercato in tutti i modi di preservare quello spirito di libertà, di dialogo e di ascolto con i miei figli, ma allo stesso tempo – lo ammetto – sono molto più severa di quanto lo furono i miei genitori con me. Credo che il principio di autorità vada affermato. Mi oppongo in special modo all’idea che si possa fare a meno delle regole. E voglio che i miei figli accettino questa impostazione, la interiorizzino, pur potendo discuterne".

 A cinquant’anni dal ’68, sembra che il celebre slogan “vietato vietare” abbia perso ogni valore. Così come è ormai sepolta l’idea che i figli debbano crescere da soli, senza regole, senza un quadro di riferimento. “Allo stesso tempo, conservo del ’68 il rifiuto dell’antico sistema ‘si fa così e basta, senza domande!’, che oggi non è più proponibile”, conclude Camille.  

Dal canto suo, Aline, che pur è stata di fatto cresciuta dai suoi nonni, racconta che “l’ozio, e la mancanza di riferimenti in particolare, ci hanno disorientati”, mentre ricorda con emozione: “per i miei genitori era sempre domenica. Facevano il pieno al motorino e se ne andavano…”.

Tuttavia, questa imprenditrice edile, cresciuta in una famiglia operaia, riconosce anche alcuni aspetti postivi: “Non sono una femminista accanita, ma grazie a quanto accaduto in quegli anni ho imparato che la donna può essere indipendente. Da quel momento sono piena di grinta e di forza di volontà. Ma farsi da soli, senza avere alle spalle dei riferimenti solidi, non è stato facile, né per me né per i miei fratelli e sorelle.“

«L'educazione troppo positiva è devastante»

Didier Pleux, psicologo clinico, deve confrontarsi quotidianamente con questa constatazione. “Vedo molti genitori tra i 35 e i 45 anni, a loro volta educati da genitori della mia generazione, quella del ’68, e molti sono smarriti. Pensano che l’educazione si faccia da sola, che siano sufficienti l’amore e la comprensione. Questa educazione troppo positiva è devastante”, spiega l’autore de Le complexe de Thétis (Il complesso di Teti - ndt). L'educazione positiva è da diversi anni una formula di moda. Prendendo le mosse dalle ricerche delle neuroscienze, soprattutto nel campo delle emozioni, sono stati pubblicati decine di libri con questa impostazione, come ad esempio “Positive Discipline” di Jane Nelsen (non pubblicato in Italia – ndt), una psicologa americana il cui metodo riscuote grande successo negli Stati Uniti. Tuttavia – come sostengono Libération e Slate - se per la Nelsen si tratta di cercare il giusto equilibrio tra fermezza e benevolenza, e di privilegiare l’incoraggiamento rispetto alle punizioni, va detto che l’Educazione Positiva è un fenomeno di moda del quale non è facile individuare i rischi; un metodo che potrebbe tramutarsi, prima o poi, in una nuova forma di dogmatismo culturale.

“Si dice ‘crescere’ un figlio: questo vuol dire che bisogna spingerlo ad elevarsi”, insiste Aline, la quale oggi ricorda senza tregua ai propri figli che i diritti vanno di pari passo con i doveri.

“Quando ho smesso di rispondere ‘d’accordo’ ai miei figli, invece di dire semplicemente “sì”, ho capito che il Maggio ‘68 aveva sbagliato tutto in materia di educazione”, racconta Delphine, una psicosociologa in pensione che a quell’epoca non era a favore del movimento studentesco, se non per la denuncia che faceva del consumismo. Delphine riconosce, tuttavia, che lo spirito sessantottino ha avuto un impatto sull’educazione dei suoi figli, senza che lei ne fosse realmente cosciente. Diversamente, Luca, quarantenne figlio di un ingegnere che aveva fatto i suoi studi nel Quartiere Latino nel ‘68, non rinnega niente dell’educazione ricevuta e racconta: “Sono stato cresciuto in una cultura di sinistra. La logica dell’educazione, che oggi trasmetto ai miei figli, consiste nel rifiuto delle regole stabilite dalla società. Sia io che i miei fratelli avevamo una grande libertà di movimento, ma questo andava di pari passo con un costante dialogo con i miei genitori”. Luca ci racconta che sua madre era una convinta lettrice di Françoise Dolto, pediatra e psicanalista diventata straordinariamente popolare a partire dagli anni ’70 e che, secondo molti, rivoluzionò la psicologia dell’infanzia.

“Fa’ un po’ come ti pare”

“Intendiamoci bene, non si tratta di essere reazionari. La ‘generazione Dolto’ ha avuto ragione nel lottare contro l’autoritarismo e nel far comprendere ai genitori che i figli non sono degli oggetti. Ma ci siamo spinti troppo oltre. Si tratta di battaglie che oggi appaiono fortemente anacronistiche”, osserva Didier Pleux, che auspica sia ristabilita l’idea di un “polo dominante” all’interno della famiglia, vale a dire quello dei genitori. “Comandare non significa cancellare. L’adulto deve assumere la leadership perché ha più esperienza di vita rispetto ai suoi figli”, puntualizza monsieur Pleux. “Ciò che non funziona più è la filosofia dell’accomodamento continuo. Occorre ripristinare una certa ‘verticalità’, il senso della gerarchia, della struttura, dell’autorità. Eppure si tratta di termini ancora ritenuti tabù, contaminati da un senso di dominazione, se non di castrazione”, prosegue lo psicologo, noto per la sua critica nei confronti della psicanalisi.

Per i ragazzi del Maggio ’68, che oggi sono diventati genitori, l’educazione dei figli si gioca sul filo del rasoio, tra il rispetto per la loro libertà e il desiderio di dare protezione, un elemento di cui essi spesso non hanno beneficiato quando erano giovani.

Sotto quest’aspetto, il Maggio ’68 è stato una rivoluzione dei modelli educativi e scolastici, con il rifiuto delle sanzioni, dei voti, e lo sviluppo della pedagogia, con la quale il ragazzo è stato posto al centro del sistema, affinché egli possa sviluppare, da sé, il proprio sapere.

“Fui adolescente nel ’68 e non ho mai sopportato che si desse del ‘tu’ agli insegnanti”, dice con forza Didier Pleux, deplorando il fatto che “la scuola oggi attribuisce priorità assoluta al principio di soddisfazione dell’allievo”. “Questa pseudo-democrazia è pura demagogia. Ogni ragazzo ha bisogno di sottoporsi a degli sforzi, di faticare per risolvere la versione di latino”, prosegue lo psicologo, che critica da molto tempo “il regno del bambino-Re”.

Alino conserva uno sgradevole ricordo dell’educazione “ludica” che ha ricevuto. “Sono stato traumatizzato dalla scuola. Si poteva entrare e uscire a piacimento, era una specie di festa continua. Mi ricordo ancora di un professore d’inglese che teneva sistematicamente i piedi sulla cattedra. E poiché a casa mia non ero seguito dai miei genitori, non c’era alcun effetto di compensazione, di riequilibrio”. Così conclude Alino: “La mia educazione è stata tutta nello stile del fa’ un po’ come ti pare”…


[1] Il movimento “anarco-queer” fa parte della galassia anarchica e LGBT - ndt.

[2] Da non confondere con Jacques Le Goff, storico ed esperto in storia medievale – ndt.

© Alexis Feertchak, 2018, Le Figaro