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Il gruppo Bilderberg: élite delle menti, più che dei denari

Dal 1° al 4 giugno scorsi si è tenuta negli Stati Uniti, in un lussuoso albergo della Virginia, la 65a riunione annuale del famoso (o famigerato?) “gruppo Bilderberg”, il consesso, a geometria variabile, tra alcuni dei più influenti politici, manager, giornalisti del mondo occidentale, anche se spesso si tratta di personalità sconosciute al grande pubblico.

I media italiani ed esteri hanno riportato la notizia con il consueto corollario di velate od esplicite accuse di elitarismo contro questo club esclusivo e riservato. D’altronde, le riunioni del Bilderberg sono regolate dalla cosiddetta Chatham House Rule, una regola informale adottata da molte istituzioni anglosassoni, secondo la quale i partecipanti sono tenuti a non rivelare all’esterno “chi ha detto cosa”. Una regola di buon senso, che dà ai partecipanti la sicurezza di poter parlare liberamente durante le riunioni, senza temere critiche sui media, azioni legali o ritorsioni della più varia origine. E va sottolineato che, secondo alcune fonti, sono tre i motivi principali che rendono le riunioni Bilderberg molto ambite e gradite tra le élite intellettuali della terra: possibilità di incontrare altri leader che magari non si conoscevano prima, riservatezza su ciò che viene detto, disponibilità dei numeri di telefono di tutti gli altri invitati (la segreteria consegna a tutti loro una lista top secret).

Il gruppo fu ideato nei primi anni ‘50 da un politico polacco in esilio, Jozef Retinger, il quale, da un lato, temeva fortemente un attacco militare della Russia contro l’Europa occidentale, dall’altro era preoccupato per la crescita, in quella parte del Vecchio Continente, di idee e sentimenti antiamericani. Ciò lo spinse a immaginare un forum che favorisse l’incontro tra leader statunitensi ed europei, affinché si sviluppasse una migliore conoscenza reciproca dei due mondi e sorgessero nuove occasioni di cooperazione politica, economica, culturale.

Retinger avvicinò il marito della regina Giuliana d’Olanda, il principe Bernardo von Biesterfeld, il quale condivise l’idea e contattò il direttore della CIA, suo amico, chiedendogli di sottoporre a sua volta l’idea a Charles Douglas Jackson, consigliere speciale del presidente Eisenhower. Così, venne stesa una lista degli esponenti internazionali da invitare, stabilendo che dovessero essere due per ogni paese, uno come rappresentante del fronte liberalconservatore, l’altro che portasse le idee del versante progressista-socialista. La prima riunione si tenne dal 1° al 4 maggio del 1954 in Olanda, nell’Hotel de Bilderberg, da cui il nome del nuovo club. Vi parteciparono 50 invitati da 11 paesi europei, più 11 leader provenienti dagli Stati Uniti. Gli incontri ebbero vivo apprezzamento fra i partecipanti e così si decise di replicare l’evento negli anni successivi, creando un comitato organizzatore di cui Retinger fu nominato segretario (ma ciò, purtroppo, non gli risparmiò un triste destino: morì, in povertà, nel 1960 per un cancro al polmone).

Da allora, le riunioni si ripetono a maggio-giugno di ogni anno in località sempre diverse, ospitando circa 100 leader che variano di anno in anno. L’Italia ha ospitato il club a Fiuggi nel 1957, a Villa d’Este nel 1965 e 1987, a Stresa nel 2004. Quattro volte su 65 non è molto (anche considerando quanti posti splendidi offre lo Stivale) e, purtroppo, viene il sospetto che ciò sia l’ennesima conferma di quanto poco l’Italia conti a livello internazionale.

Comunque, nella riunione di quest’anno gli italiani invitati sono stati John Elkann, Fabiola Gianotti (direttrice del Cern), Sandro Gozi (deputato PD), Maurizio Molinari (direttore de La Stampa), Beppe Severgnini e Lilli Gruber (di nuovo: 6 invitati su 112, il 5%...). Secondo il costume denigratorio ormai invalso in Italia, la Gruber è stata subissata di critiche velenose sui vari social media, che rinfacciano alla giornalista una presunta “collusione” con i cosiddetti “poteri forti”. Una accusa del tutto ridicola. Piuttosto, nessuno ha rilevato come nella lista degli italiani invitati in Virginia non appaia alcun chiaro esponente del fronte liberalconservatore. Ma forse la tradizionale avversione degli anglosassoni per i meandri, le contorsioni e le opacità della politica italiana non li ha aiutati ad svolgere una selezione ben equilibrata. E forse i liberalconservatori italiani non sanno fare lobbying e non sanno come farsi riconoscere da un club di stampo anglosassone, piuttosto lontano dal mondo mediterraneo. Non ultimo, viene il sospetto che pochi di loro conoscano adeguatamente le lingue estere e che questo sia un ostacolo fondamentale…

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