Il ritorno del Giappone alla potenza militare
La spettacolare vittoria elettorale conseguita ad ottobre 2017 dal nazionalista Shinzo Abe (313 seggi sui 465 seggi della Camera bassa del Parlamento giapponese), farà di lui il primo ministro politicamente più longevo dai tempi della sconfitta del 1945 (è infatti in carica dal 2012, dopo un primo mandato dal 2006 al 2007). Questa vittoria provocherà, tra l’altro, un progressivo ritorno del Giappone alla potenza militare.
Ma facciamo un passo indietro. Quando l’Arcipelago nipponico, a partire dal 1868, comincia a modernizzarsi, decide di imitare il modello delle isole britanniche. Sulla falsariga dell’Inghilterra vittoriana, il Giappone deve quindi diventare allo stesso tempo una potenza marittima e peso massimo industriale, adottando un sistema parlamentare che abbia come capo di Stato un monarca costituzionale. In realtà, l’insediamento di una vera e propria democrazia fallisce già nel 1931 (invasione della Manciuria, non decretata dal governo civile), sotto i violenti attacchi di un esercito e di una marina imperiali ai quali la Costituzione Meiji ha conferito una totale indipendenza. Con l’attacco a sorpresa di Pearl Harbor, nel dicembre del 1941, sono gli ufficiali superiori, investiti dall’imperatore, a far piombare il Giappone in una guerra catastrofica contro gli Stati Uniti. Tra il 1945 e il 1952, gli Americani riusciranno ad occupare l’Arcipelago, preservando la persona dell’imperatore (ma non il suo status di “dio vivente”), nutrendo la popolazione, dotando lo Stato di una costituzione democratica e finanziando la ricostruzione delle fabbriche. Quando lascia Tokyo, nel 1951, il generale MacArthur è estremamente popolare in Giappone. L’articolo 9 della nuova costituzione proscrive ogni belligeranza. Da un punto di vista militare, all’Arcipelago non resta che il diritto alla mera autodifesa. Questo provvedimento è molto ben accolto dalla popolazione, che non ha perdonato alla sua élite militare il disastroso avventurismo del 1941. La guerra di Corea (1950-1953) – a cui non partecipa ovviamente nessun soldato giapponese – è una benedizione per l’industria dell’Arcipelago, che diventa assurge a base logistica del corpo di spedizione occidentale.
Sotto la protezione dell’America (che diventa l’unica potenza navale del Pacifico), il Giappone diventerà progressivamente un gigante economico, pur rimanendo praticamente un “nano” politico. Negli anni ‘70 e ’80, il Giappone sfrutta molto abilmente la rivalità tra Pechino e Mosca per migliorare le sue relazioni sia con la Cina che con l’URSS. È questa l’epoca in cui le due grandi dittature comuniste asiatiche corteggiano il Giappone, perdonandogli la sua incrollabile alleanza con l’America.
Nel corso dell’intera era di Deng Xiaoping (1976-1997), la Cina pensa soltanto a modernizzarsi economicamente e a condurre a buon fine il suo passaggio dal comunismo al capitalismo. Prende a modello il Giappone, sollecita il suo aiuto, ne carpisce la tecnologia. I manuali di storia cinesi dell’epoca accennano appena alle atrocità compiute dall’esercito nipponico nel periodo dell’occupazione della Cina (1937-1945). Ma a partire dall’inizio del nuovo millennio, la Cina si impegna a recuperare il suo status di prima potenza marittima dell’Asia. Per poter ampliare le sue aree di controllo politico ed economico nel Mar Cinese Orientale, essa rivendica apertamente la sua sovranità sulle disabitate isole Senkaku - amministrate a partire dal 1895 dal Giappone – e vi invia attivisti nazionalisti per provocare incidenti navali con i guardacoste. La Cina rifiuta, inoltre, la proposta americana di mediazione e attua una strategia di accaparramento, con la forza, di alcuni isolotti disabitati del Mar Cinese Meridionale, facendo infuriare gli Stati costieri (Vietnam, Malesia, Brunei, Filippine). L’aumento dell’egemonismo cinese sui mari ha come conseguenza una reazione nazionalista in Giappone. Abe, rifiutandosi di lasciarsi intimidire da Pechino, annuncia un rafforzamento dell’esercito e della marina giapponese. Queste forze di “autodifesa” – il cui budget supera quello delle forze armate francesi – hanno due assi nella manica: sono ben addestrate e dispongono di un armamento ultramoderno. Ma presentano anche due handicap: non hanno alcuna esperienza reale della guerra (non avendo tirato un solo colpo di fucile dal 1945) e, in base all’articolo 9 della Costituzione, non sono dotate di alcuna arma “offensiva” (l’aereonautica, ad esempio, non ha in dotazione alcuna bomba per distruggere le piste d’aeroporto).
Abe ha basato la sua campagna elettorale sulla ferma inflessibilità nei confronti di una Corea del Nord che non esita a lanciare nello spazio aereo dell’Arcipelago missili che poi vanno ad inabissarsi nel Mar del Giappone. Egli auspica ora l’emendamento dell’articolo 9, per far sì che il Giappone torni ad essere una potenza geopolitica normale. La maggioranza dei due terzi, di cui egli dispone in Parlamento, gli consentirebbe di promuovere un referendum sulla revisione della costituzione. Ed essendo i suoi alleati americani favorevoli a questa idea, a Shinzo Abe sarebbe sufficiente una nuova provocazione nord-coreana per raggiungere lo scopo…
© Renaud Girard, 2017, Le Figaro
Il ritorno del Giappone alla potenza militare
La spettacolare vittoria elettorale conseguita ad ottobre 2017 dal nazionalista Shinzo Abe (313 seggi sui 465 seggi della Camera bassa del Parlamento giapponese), farà di lui il primo ministro politicamente più longevo dai tempi della sconfitta del 1945 (è infatti in carica dal 2012, dopo un primo mandato dal 2006 al 2007). Questa vittoria provocherà, tra l’altro, un progressivo ritorno del Giappone alla potenza militare.
Ma facciamo un passo indietro. Quando l’Arcipelago nipponico, a partire dal 1868, comincia a modernizzarsi, decide di imitare il modello delle isole britanniche. Sulla falsariga dell’Inghilterra vittoriana, il Giappone deve quindi diventare allo stesso tempo una potenza marittima e peso massimo industriale, adottando un sistema parlamentare che abbia come capo di Stato un monarca costituzionale. In realtà, l’insediamento di una vera e propria democrazia fallisce già nel 1931 (invasione della Manciuria, non decretata dal governo civile), sotto i violenti attacchi di un esercito e di una marina imperiali ai quali la Costituzione Meiji ha conferito una totale indipendenza. Con l’attacco a sorpresa di Pearl Harbor, nel dicembre del 1941, sono gli ufficiali superiori, investiti dall’imperatore, a far piombare il Giappone in una guerra catastrofica contro gli Stati Uniti. Tra il 1945 e il 1952, gli Americani riusciranno ad occupare l’Arcipelago, preservando la persona dell’imperatore (ma non il suo status di “dio vivente”), nutrendo la popolazione, dotando lo Stato di una costituzione democratica e finanziando la ricostruzione delle fabbriche. Quando lascia Tokyo, nel 1951, il generale MacArthur è estremamente popolare in Giappone. L’articolo 9 della nuova costituzione proscrive ogni belligeranza. Da un punto di vista militare, all’Arcipelago non resta che il diritto alla mera autodifesa. Questo provvedimento è molto ben accolto dalla popolazione, che non ha perdonato alla sua élite militare il disastroso avventurismo del 1941. La guerra di Corea (1950-1953) – a cui non partecipa ovviamente nessun soldato giapponese – è una benedizione per l’industria dell’Arcipelago, che diventa assurge a base logistica del corpo di spedizione occidentale.
Sotto la protezione dell’America (che diventa l’unica potenza navale del Pacifico), il Giappone diventerà progressivamente un gigante economico, pur rimanendo praticamente un “nano” politico. Negli anni ‘70 e ’80, il Giappone sfrutta molto abilmente la rivalità tra Pechino e Mosca per migliorare le sue relazioni sia con la Cina che con l’URSS. È questa l’epoca in cui le due grandi dittature comuniste asiatiche corteggiano il Giappone, perdonandogli la sua incrollabile alleanza con l’America.
Nel corso dell’intera era di Deng Xiaoping (1976-1997), la Cina pensa soltanto a modernizzarsi economicamente e a condurre a buon fine il suo passaggio dal comunismo al capitalismo. Prende a modello il Giappone, sollecita il suo aiuto, ne carpisce la tecnologia. I manuali di storia cinesi dell’epoca accennano appena alle atrocità compiute dall’esercito nipponico nel periodo dell’occupazione della Cina (1937-1945). Ma a partire dall’inizio del nuovo millennio, la Cina si impegna a recuperare il suo status di prima potenza marittima dell’Asia. Per poter ampliare le sue aree di controllo politico ed economico nel Mar Cinese Orientale, essa rivendica apertamente la sua sovranità sulle disabitate isole Senkaku - amministrate a partire dal 1895 dal Giappone – e vi invia attivisti nazionalisti per provocare incidenti navali con i guardacoste. La Cina rifiuta, inoltre, la proposta americana di mediazione e attua una strategia di accaparramento, con la forza, di alcuni isolotti disabitati del Mar Cinese Meridionale, facendo infuriare gli Stati costieri (Vietnam, Malesia, Brunei, Filippine). L’aumento dell’egemonismo cinese sui mari ha come conseguenza una reazione nazionalista in Giappone. Abe, rifiutandosi di lasciarsi intimidire da Pechino, annuncia un rafforzamento dell’esercito e della marina giapponese. Queste forze di “autodifesa” – il cui budget supera quello delle forze armate francesi – hanno due assi nella manica: sono ben addestrate e dispongono di un armamento ultramoderno. Ma presentano anche due handicap: non hanno alcuna esperienza reale della guerra (non avendo tirato un solo colpo di fucile dal 1945) e, in base all’articolo 9 della Costituzione, non sono dotate di alcuna arma “offensiva” (l’aereonautica, ad esempio, non ha in dotazione alcuna bomba per distruggere le piste d’aeroporto).
Abe ha basato la sua campagna elettorale sulla ferma inflessibilità nei confronti di una Corea del Nord che non esita a lanciare nello spazio aereo dell’Arcipelago missili che poi vanno ad inabissarsi nel Mar del Giappone. Egli auspica ora l’emendamento dell’articolo 9, per far sì che il Giappone torni ad essere una potenza geopolitica normale. La maggioranza dei due terzi, di cui egli dispone in Parlamento, gli consentirebbe di promuovere un referendum sulla revisione della costituzione. Ed essendo i suoi alleati americani favorevoli a questa idea, a Shinzo Abe sarebbe sufficiente una nuova provocazione nord-coreana per raggiungere lo scopo…
© Renaud Girard, 2017, Le Figaro
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