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Il ritorno dell’elemento nazionale in Medio Oriente

Lo scorso 28 novembre 2017 ha avuto luogo a Ginevra, sotto l’egida dell’ONU, una nuova sessione di negoziati tra il governo siriano e l’opposizione per tentare di trovare una soluzione politica in grado di porre fine ad una guerra civile che dura già da sei anni. Gli ostacoli sul cammino della pace sono talmente numerosi che è lecito essere pessimisti. L’opposizione, riunitasi a Riad il 24 novembre, ha dimostrato di essere ancora paralizzata da divisioni interne, egoismi, rivalità. Sostenuta dalle grandi potenze dell’occidente mediorientale - Turchia e Arabia Saudita - l’opposizione auspica che a Damasco si insedi un governo di transizione, dal quale poi allontanare il più in fretta possibile Bashar al-Assad. Quest’ultimo, alleato di Iran e Russia, ha invece tutt’altro obiettivo: restare ben saldo al suo posto con l’obiettivo di riconquistare il controllo della totalità del territorio siriano. Per il momento, è impossibile prevedere se Assad sarà o meno disposto a concedere ad alcuni dei suoi oppositori la cosiddetta “pace degli eroi”. Troppe ostilità dividono le due fazioni - tra le quali non fanno che fioccare insulti - perché si possa sperare di instaurare un dialogo ragionevole. Secondo i ribelli, il presidente siriano ha “massacrato il suo popolo” pur di restare al potere; mentre secondo Assad gli insorti non sono altro che accaniti “terroristi” il cui obiettivo è quello di distruggere lo Stato baasista [1].  

Sono passati quasi sette anni dalle primavere arabe, che investirono inizialmente la Tunisia, poi l’Egitto, quindi lo Yemen, la Libia e la Siria. Queste ex-dittature militari sono state sommerse in successione da due grandi ondate ideologiche. Per prima, quella della democrazie e del potere restituito al popolo, che tanto entusiasmò gli osservatori occidentali. Costoro, in preda all’euforia, non si accorsero della seconda ondata, quella dei fautori di una legislazione generata da Dio e non dagli uomini, vale a dire i Fratelli musulmani, i quali proclamavano (ieri come oggi – NdR) che la soluzione a tutto fosse l’Islam. I democratici laici riuscirono a creare una breccia di libertà all’interno della quale gli islamisti – meglio organizzati – si insinuarono con estrema facilità.

Tuttavia, dopo sette anni, siamo costretti a constatare che nessuna di queste ideologie è riuscita ad accaparrarsi il Medio Oriente. L’ideologia democratica – che per sopravvivere ha bisogno di un vero Stato di diritto – non è riuscita a trionfare da nessuna parte. Né, d’altro canto, l’ideologia islamista che - dopo aver conquistato importanti aree della Mesopotamia, della Siria dell’Africa del Nord - è oggi ovunque in declino. Il massacro degli oltre 300 fedeli riuniti in preghiera in una moschea sufi -  avvenuto il 24 novembre nella penisola del Sinai - non rappresenta per lo Stato islamico che un exploit mediatico a breve termine. Il cosiddetto “totalitarismo verde” (il colore del radicalismo islamico - NdT) inizia a collezionare fallimenti: così come non è riuscito ad impossessarsi né della Siria, né dell’Iraq – e malgrado una ininterrotta campagna del terrore - difficilmente riuscirà ad impossessarsi dell’Egitto. L’estremismo islamico trova attualmente terreno fertile soltanto nelle regioni dove regnano il caos e i traffici. Ma di fronte ad uno Stato forte esso non può sopravvivere a lungo.

Come dimostrato dalla World Policy Conference recentemente organizzata a Marrakech da Thierry de Montbrial, il fenomeno politico oggi più eclatante nel Medio Oriente non è di natura ideologica ma è rappresentato da un ritorno agli antichi nazionalismi. Per riuscire a rafforzare i rispettivi Stati, alcune grandi potenze hanno deciso di impegnarsi per superare le proprie differenze culturali, etniche e religiose e collaborare tra loro. È questo il caso della Turchia sunnita e dell’Iran sciita, che condividono l’avversione nei confronti della rivendicazione di autonomia dei curdi. Così, mentre sull’attuale scacchiere politico i vecchi Stati del Medio Oriente si consolidano, ai curdi – indeboliti dalle loro divisioni tribali interne – sfugge sempre più di mano l’opportunità di creare un proprio Stato autonomo. Dopo la vittoria a Mosul, le forze speciali irachene hanno riconquistato la città di Kirkuk che dal 2014 era occupata dai curdi. E la responsabilità di questo fallimento è da imputarsi al “tradimento” dei curdi filo-iraniani.

A Beirut, il caso Hariri [2] ha dimostrato che esiste un nazionalismo libanese in grado di trascendere le frontiere confessionali. Un analogo orgoglio nazionalista è riuscito ad infiammare addirittura il piccolo Stato del Qatar, rifiutatosi di sottostare ai diktat di Arabia Saudita ed Emirati Arabi, suoi vicini di casa. Come insegna ciò che è accaduto in Europa in seguito alla Pace di Westfalia, è possibile che anche tra paesi molto diversi tra loro possano nascere alleanze. L’asse sciita Teheran - Baghdad - Damasco - Beirut consente oggi all’Iran di garantirsi uno sbocco sul Mediterraneo. All’opposto, troviamo un improbabile asse Tel Aviv - Cairo - Riad - Abu Dhabi, a sua volta sfidato dal mini-asse Ankara - Doha.

La storia dell’Europa del XX secolo ci ha insegnato che gli Stati sono più resilienti delle ideologie. Il 26 novembre scorso Mohammad bin Salman, principe ereditario saudita, ha concluso a Riad una conferenza con più di 40 Stati musulmani intenzionati a cooperare per annientare il radicalismo islamico e la sua ideologia. Tuttavia, fino a quando questo progetto virtuoso non diventerà realtà, l’idea democratica non potrà avere alcuna opportunità di tornare a sedurre le società mediorientali.


[1] Il Baas è il partito politico della rinascita fondato a Damasco agli inizi degli anni ’40 e la cui ideologia è essenzialmente nazionalista e panarabista - NdT.

[2] Il primo ministro libanese, Hariri, sunnita, ha annunciato a novembre 2017 le sue dimissioni, denunciando interferenze dell’Iran sciita sulla politica interna del paese e affermando di temere un attentato alla sua persona. Le dimissioni sono poi state ritirate, su pressione del presidente libanese, il cristiano maronita Michel Aoun - NdT.

© Renaud Girard, 2017, Le Figaro