In memoria di Jean d’Ormesson – Intervista a Marc Fumaroli: “era l’archetipo del gentiluomo francese”
Il 5 dicembre 2017 è scomparso Jean d'Ormesson, uno dei massimi intellettuali e letterati di Francia. Un uomo che meriterebbe di essere maggiormente conosciuto e apprezzato in Italia, paese che amava moltissimo (in particolare Venezia, dove ha avuto casa per diversi anni).
nota della redazione
Monsieur Fumaroli, siete stato amico intimo di Jean d’Ormesson e avete scritto la prefazione alla sua opera omnia, apparsa nella prestigiosa collana della Pléiade di Gallimard, esordendo con questa domanda: “Come si diventa Jean d’Ormesson”? Conoscete la risposta?
MARC FUMAROLI: Ho conosciuto Jean d’Ormesson quando era direttore della rivista Diogène all’Unesco. Amava molto occuparsene, gli permetteva di entrare in relazione con le migliori menti d’Europa. Eravamo all’inizio degli anni Settanta e, come lui, anch’io facevo parte del partito della “resistenza allo spirito del maggio 1968”. Fui immediatamente colpito dalla sua eleganza sorridente e dai suoi modi. Si dimostrava sempre molto disponibile nei confronti degli altri ed era contraccambiato. Aveva ereditato quella particolare eleganza che apparteneva ad una lunga tradizione familiare, risalente addirittura a Luigi XIV. Essendo io uno storico del Grand Siècle[i], mi sentivo molto vicino a questo ultimo superstite di un archetipo sociale, morale e umano – quello del gentiluomo francese – che tornava a manifestarsi intatto, vitale, irresistibile. Jean d’Ormesson era uno di quegli individui fuori dal comune nel quale i francesi hanno avuto la fortuna di potersi identificare.

Accademici di Francia: Jean d'Ormesson (al centro, con fascia rossa), Alain Finkielkraut a sinistra (© Académie Française).
Il primo editore di Jean d’Ormesson, René Juilliard, vedeva in lui un “fratello di Françoise Sagan”[ii]. Come descriverebbe il suo stile?
M.F: Nel profondo di se stesso egli continuava ad essere modesto, visto che il concetto di gentiluomo esclude qualsiasi vanità letteraria. A mio avviso, Jean d’Ormesson ha scritto due capolavori assoluti: La gloria dell’Impero e A Dio piacendo[iii]. La gloria dell’Impero, che sancisce la sua reputazione letteraria, è un tentativo magnificamente riuscito di scrivere in stile ironico un’epopea immaginaria, sulla falsariga della tradizione delle Avventure di Telemaco di Fénelon rivisitate da Louis Aragon, per il quale egli nutriva grande ammirazione. In A Dio piacendo egli veste i panni sia del memorialista che del romanziere, per riuscire a trasmettere il senso di una eredità la cui vitalità veniva proposta, amplificata all’ennesima potenza, ad un’epoca che invece la rifiutava. Come scriveva Jean-Paul Sartre nella sua autobiografia Le parole: “Nelle nostre società in movimento, i ritardi talvolta generano un anticipo”. Ecco, Jean d’Ormesson incarnava proprio questa idea. Senza mai cedere né all’autobiografia, né all’auto-romanzo, egli ha saputo offrire queste tradizioni ad un’epoca della quale aveva intuito l’implicito desiderio di delicatezza, un’epoca che vedeva in lui un “contro-modello” al quale attingere quanto necessario per vivere con eleganza insieme agli altri, e alle donne in particolare.
Quali erano i suoi riferimenti letterari?
M.F.: Jean d’Ormesson apparteneva alla grande tradizione degli scrittori classici. Ammiravamo entrambi i grandi autori del passato e il modo in cui erano riusciti a portare la lingua francese ad un livello che oserei definire “ellenistico”: Corneille, Racine, Boileau, Fénelon. Amava questi grandi autori che recitava di buon grado e a memoria, grazie alle sue prodigiose doti mnemoniche. Tutto ciò che scriveva possedeva una patina speciale: egli fa parte di quella categoria di scrittori la cui opera è stata levigata e nutrita dalla sedimentazione di un’eredità secolare.
Si insiste spesso sulla sua allegria, sulla sua gioia di vivere. Così facendo non si rischia di trascurare la sua dimensione tragica?
M.F.: La tendenza in effetti è stata quella di identificare, in maniera riduttiva, la sua personalità con la leggerezza. Gli invidiosi ne parlavano generalmente come di uno scrittore “da talk-show” che amava mostrarsi in pubblico. In realtà questa sua inclinazione per la televisione non era che un modo di misurarsi con il dono - che aveva ricevuto e accettato – di sedurre e di piacere. Per lui era come un duello: in quei momenti si trasformava in torero, diventava il Manolete[iv] della letteratura. Ho sempre trovato che la sua gioia di vivere e il suo calore non potessero scaturire che da una conoscenza crudele della condizione umana e del mondo contemporaneo. Di lui bisognerebbe tenere presente, in realtà, che era tanto più profondo quanto più era capace di leggerezza, senza pedanterie e senza prendersi sul serio. Il modo migliore per sbarazzarci di questa immagine riduttiva di eterno ottimista è leggere le sue opere. Malgrado il suo temperamento allegro, a lui apparteneva anche la vocazione, più classica, di terapeuta letterario nei confronti del “disagio della società”.
“Tutta la nostra esistenza silenziosa era animata da una fede di cui non parlavamo mai”, scriveva ne A Dio piacendo. Qual era il suo rapporto con la trascendenza?
Da illuminista, quale era, aveva una immensa curiosità per la scienza. Leggeva riviste di astrofisica e aveva una passione per le teorie sul Big Bang. A quanto ne so, era un cattolico non praticante. Mi è sempre sembrato che si mantenesse in una sorta di ambiguità che lo esonerava da qualsiasi presa di posizione religiosa. Chiamava “Dio” tutto ciò che ancora sfugge alla conoscenza scientifica. Si meravigliava continuamente davanti al miracolo della Creazione. Questa breve citazione da Il romanzo dell’ebreo errante[v], riassume perfettamente la sua filosofia: “Bisogna trattare il mondo con appassionata indifferenza”.
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Marc Fumaroli, storico e saggista, occupa il seggio n°6 dell’Académie Française. Fondata da Richelieu, l’Accademia è la più prestigiosa istituzione culturale francese. Conta 40 membri, scelti per cooptazione, ciascuno dei quali può fregiarsi del titolo di “Immortale” (…della cultura francese).
[i] Periodo, tra i più floridi in Francia, corrispondente al XVII secolo.
[ii] Scrittrice e drammaturga francese, scoperta e pubblicata - così come Jean d’Ormesson - dall’editore Juilliard.
[iii] In Italia, entrambi pubblicati da Rizzoli Editore.
[iv] Manolete è considerato il più grande torero di tutti i tempi.
[v] Jean d’Ormesson, Histoire du Juif errant, ed. Gallimard (In Italia pubblicato da Rizzoli Editore).
© Eugénie Bastié, 2017, Le Figaro
In memoria di Jean d’Ormesson – Intervista a Marc Fumaroli: “era l’archetipo del gentiluomo francese”
Il 5 dicembre 2017 è scomparso Jean d'Ormesson, uno dei massimi intellettuali e letterati di Francia. Un uomo che meriterebbe di essere maggiormente conosciuto e apprezzato in Italia, paese che amava moltissimo (in particolare Venezia, dove ha avuto casa per diversi anni).
nota della redazione
Monsieur Fumaroli, siete stato amico intimo di Jean d’Ormesson e avete scritto la prefazione alla sua opera omnia, apparsa nella prestigiosa collana della Pléiade di Gallimard, esordendo con questa domanda: “Come si diventa Jean d’Ormesson”? Conoscete la risposta?
MARC FUMAROLI: Ho conosciuto Jean d’Ormesson quando era direttore della rivista Diogène all’Unesco. Amava molto occuparsene, gli permetteva di entrare in relazione con le migliori menti d’Europa. Eravamo all’inizio degli anni Settanta e, come lui, anch’io facevo parte del partito della “resistenza allo spirito del maggio 1968”. Fui immediatamente colpito dalla sua eleganza sorridente e dai suoi modi. Si dimostrava sempre molto disponibile nei confronti degli altri ed era contraccambiato. Aveva ereditato quella particolare eleganza che apparteneva ad una lunga tradizione familiare, risalente addirittura a Luigi XIV. Essendo io uno storico del Grand Siècle[i], mi sentivo molto vicino a questo ultimo superstite di un archetipo sociale, morale e umano – quello del gentiluomo francese – che tornava a manifestarsi intatto, vitale, irresistibile. Jean d’Ormesson era uno di quegli individui fuori dal comune nel quale i francesi hanno avuto la fortuna di potersi identificare.
Accademici di Francia: Jean d'Ormesson (al centro, con fascia rossa), Alain Finkielkraut a sinistra (© Académie Française).
Il primo editore di Jean d’Ormesson, René Juilliard, vedeva in lui un “fratello di Françoise Sagan”[ii]. Come descriverebbe il suo stile?
M.F: Nel profondo di se stesso egli continuava ad essere modesto, visto che il concetto di gentiluomo esclude qualsiasi vanità letteraria. A mio avviso, Jean d’Ormesson ha scritto due capolavori assoluti: La gloria dell’Impero e A Dio piacendo[iii]. La gloria dell’Impero, che sancisce la sua reputazione letteraria, è un tentativo magnificamente riuscito di scrivere in stile ironico un’epopea immaginaria, sulla falsariga della tradizione delle Avventure di Telemaco di Fénelon rivisitate da Louis Aragon, per il quale egli nutriva grande ammirazione. In A Dio piacendo egli veste i panni sia del memorialista che del romanziere, per riuscire a trasmettere il senso di una eredità la cui vitalità veniva proposta, amplificata all’ennesima potenza, ad un’epoca che invece la rifiutava. Come scriveva Jean-Paul Sartre nella sua autobiografia Le parole: “Nelle nostre società in movimento, i ritardi talvolta generano un anticipo”. Ecco, Jean d’Ormesson incarnava proprio questa idea. Senza mai cedere né all’autobiografia, né all’auto-romanzo, egli ha saputo offrire queste tradizioni ad un’epoca della quale aveva intuito l’implicito desiderio di delicatezza, un’epoca che vedeva in lui un “contro-modello” al quale attingere quanto necessario per vivere con eleganza insieme agli altri, e alle donne in particolare.
Quali erano i suoi riferimenti letterari?
M.F.: Jean d’Ormesson apparteneva alla grande tradizione degli scrittori classici. Ammiravamo entrambi i grandi autori del passato e il modo in cui erano riusciti a portare la lingua francese ad un livello che oserei definire “ellenistico”: Corneille, Racine, Boileau, Fénelon. Amava questi grandi autori che recitava di buon grado e a memoria, grazie alle sue prodigiose doti mnemoniche. Tutto ciò che scriveva possedeva una patina speciale: egli fa parte di quella categoria di scrittori la cui opera è stata levigata e nutrita dalla sedimentazione di un’eredità secolare.
Si insiste spesso sulla sua allegria, sulla sua gioia di vivere. Così facendo non si rischia di trascurare la sua dimensione tragica?
M.F.: La tendenza in effetti è stata quella di identificare, in maniera riduttiva, la sua personalità con la leggerezza. Gli invidiosi ne parlavano generalmente come di uno scrittore “da talk-show” che amava mostrarsi in pubblico. In realtà questa sua inclinazione per la televisione non era che un modo di misurarsi con il dono - che aveva ricevuto e accettato – di sedurre e di piacere. Per lui era come un duello: in quei momenti si trasformava in torero, diventava il Manolete[iv] della letteratura. Ho sempre trovato che la sua gioia di vivere e il suo calore non potessero scaturire che da una conoscenza crudele della condizione umana e del mondo contemporaneo. Di lui bisognerebbe tenere presente, in realtà, che era tanto più profondo quanto più era capace di leggerezza, senza pedanterie e senza prendersi sul serio. Il modo migliore per sbarazzarci di questa immagine riduttiva di eterno ottimista è leggere le sue opere. Malgrado il suo temperamento allegro, a lui apparteneva anche la vocazione, più classica, di terapeuta letterario nei confronti del “disagio della società”.
“Tutta la nostra esistenza silenziosa era animata da una fede di cui non parlavamo mai”, scriveva ne A Dio piacendo. Qual era il suo rapporto con la trascendenza?
Da illuminista, quale era, aveva una immensa curiosità per la scienza. Leggeva riviste di astrofisica e aveva una passione per le teorie sul Big Bang. A quanto ne so, era un cattolico non praticante. Mi è sempre sembrato che si mantenesse in una sorta di ambiguità che lo esonerava da qualsiasi presa di posizione religiosa. Chiamava “Dio” tutto ciò che ancora sfugge alla conoscenza scientifica. Si meravigliava continuamente davanti al miracolo della Creazione. Questa breve citazione da Il romanzo dell’ebreo errante[v], riassume perfettamente la sua filosofia: “Bisogna trattare il mondo con appassionata indifferenza”.
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Marc Fumaroli, storico e saggista, occupa il seggio n°6 dell’Académie Française. Fondata da Richelieu, l’Accademia è la più prestigiosa istituzione culturale francese. Conta 40 membri, scelti per cooptazione, ciascuno dei quali può fregiarsi del titolo di “Immortale” (…della cultura francese).
[i] Periodo, tra i più floridi in Francia, corrispondente al XVII secolo.
[ii] Scrittrice e drammaturga francese, scoperta e pubblicata - così come Jean d’Ormesson - dall’editore Juilliard.
[iii] In Italia, entrambi pubblicati da Rizzoli Editore.
[iv] Manolete è considerato il più grande torero di tutti i tempi.
[v] Jean d’Ormesson, Histoire du Juif errant, ed. Gallimard (In Italia pubblicato da Rizzoli Editore).
© Eugénie Bastié, 2017, Le Figaro
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