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L’ombra della rivoluzione russa del 1917

La Rivoluzione d’ottobre del 1917 ha rappresentato un avvenimento di straordinaria portata che ha dominato la storia di tutto il XX secolo.

Lenin non soltanto ha distrutto la Russia zarista e contribuito a seppellire l’Europa liberale del XIX secolo, ha anche inventato il totalitarismo.

Il “sovietismo”, ha quasi annientato la democrazia in Europa a tre riprese: con la pace di Brest-Litovsk, stipulata a partire dal dicembre 1917, che consentì al Secondo Reich di concentrare tutte le sue forze sul fronte ovest; con l’indebolimento – da parte dei partiti comunisti – della sinistra democratica e la conseguente legittimazione dell’estrema destra, nel periodo tra le due guerre, prima che il patto germano-sovietico – firmato nell’agosto del 1939 – lasciasse carta bianca a Hitler per conquistare il continente; e, in ultimo, con l’occupazione da parte di Stalin, nel 1945, dell’Europa orientale, mentre, con la Guerra Fredda, la parte occidentale sarebbe diventata il principale bersaglio dell’espansionismo sovietico.

Prima, la caduta del muro di Berlino, nel 1989, e, più tardi, il crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991, hanno chiuso il ciclo delle guerre del XX secolo. Ma la grande illusione ideologica che aveva guidato la rivoluzione del 1917 non è morta. Il marxismo è stato seppellito troppo in fretta: Cuba o la Corea del Nord ne hanno fatto un reperto archeologico, la Cina totalitario-capitalista un guscio vuoto. E non possiamo fare a meno di constatare che il regime di Pyongyang sta minando l’equilibrio internazionale, da un lato, accelerando la sua corsa al nucleare e verso la conquista dello spazio, dall’altro, compromettendo la credibilità della leadership americana.

Il fallimento finanziario del Venezuela chavista non è in grado di contenere la riattivazione del mito della rivoluzione e l’utopia suicida di un socialismo datato XXI secolo. E soprattutto, la Cina di Xi Jinping, a partire dal recentissimo Congresso del PCC, sta combinando il suo ingresso nella politica di potenza con il dogma di un marxismo cinesizzato, ponendosi come obiettivo a lungo termine di riuscire a dominare il mondo entro il 2049.

Dal canto suo, la Russia di Putin mostra molta reticenza nel commemorare il 1917. Da una parte, perché il presidente mira a ristabilire un legame con lo zarismo, dall’altra perché teme una nuova rivoluzione, questa volta liberale. Ma 75 anni di comunismo hanno plasmato le menti in modo profondo. La Russia non è più comunista, ma resta sovietica. Ed ha inventato una nuova forma di democrazia: la democratura[1], fondata sul potere di un uomo forte.

La democratura ha fatto scuola non soltanto in Cina ed in Turchia, in Egitto o nelle Filippine, ma anche in Europa - con la conversione dei paesi del gruppo di Viesegrád[2] a pseudo-democrazie illiberali. Contemporaneamente, le democrazie sono sottomesse ad uno shock populista che si rifà alla lotta di classe e al mito rivoluzionario: dal Labour di Jeremy Corbin, al Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, passando per Les Insoumis (Francia), Podemos (Spagna) e gli indipendentisti catalani.

Molte delle lezioni dell’ottobre 1917 sono ancora attuali. Anzitutto, dobbiamo constatare che un piccolo gruppo di uomini uniti, determinati e fautori di una violenza radicale, è in grado di far cadere regimi considerati stabili e duraturi, democrazie incluse; in secondo luogo, osserviamo che il ritorno dell’idea di uomo forte al potere, delle teocrazie e dei califfati, evidenzia il perdurare di pulsioni egemoniche e il favore verso sistemi di controllo totale sugli uomini e sulle società.

Come nel caso dell’Ancien Régime nella Francia del XVIII secolo, quando in Russia scoppiò la rivoluzione, la monarchia dei Romanov era già morta. Sarebbe caduta comunque, anche se non fosse sopravvissuta ai propri disastri militari e avesse preso posto tra i vincitori del 1918. E questo perché la modernizzazione dell’economia e della parte illuminata della società si scontrava frontalmente contro l’arcaismo delle istituzioni e del sistema politico.

La Russia dell’inizio del XX secolo, così come l’URSS degli anni Ottanta, dimostrò la medesima incapacità di riformare se stessa senza stravolgersi. Per la Russia, la catastrofe storica ha avuto luogo non tanto nel 1989, quanto nel 1917, tra crollo demografico – necessariamente connesso ai circa 20 milioni di vittime del sistema sovietico, regressione economica, passando dall’8,5% al 2,5% del PIL mondiale, e impoverimento delle masse.

È evidente che le democrazie non sono state in grado di fare tesoro degli insegnamenti provenienti dalla rivoluzione russa, specie se si pensa che il mondo del XXI secolo si ritrova a dover fronteggiare guerre, grandi crisi economiche, sconvolgimenti tecnologici ed ecologici.

Le democrazie stanno dimostrando, inoltre, un’ingenuità imbarazzante di fronte alla violenza e alle minacce attuali, nelle varie forme, che si tratti di jihadismo, democrature o populismi. Per la sopravvivenza della libertà, è davvero arrivato il momento di prendere sul serio prevenzione e contenimento della violenza. È arrivato il momento di ricordarci che sono le idee, nel bene e nel male, a fare la storia.

La dissoluzione dell’Unione Sovietica non fu causata dalle armi, bensì dalla decomposizione della menzogna e della paura sulle quali era stata fondata.


[1] Termine coniato da Predrag Matvejevic per indicare un regime formalmente democratico ma in realtà oligarchico.

[2] Il Gruppo di Visegrád si costituisce nel 1991 come alleanza tra quattro paesi dell’Europa centrale: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria.

© Nicolas Baverez, 2017, Le Figaro