La sinistra post adolescenziale e il culto di Che Guevara
Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, rende omaggio al rivoluzionario cubano e lo celebra come “icona romantica”. Il nostro cronista canadese vede in questo gesto la cecità volontaria di una parte della sinistra nei confronti della vera natura del comunismo.
È una scena che si ripete spesso nelle università nordamericane, soprattutto nelle facoltà umanistiche o di scienze sociali: un professore entra in classe e nota che alcuni studenti indossano una maglietta su cui campeggia il ritratto di Che Guevara. O magari non ci fa neanche più caso, tanto la cosa è diventata comune. Forse ne gioisce in silenzio? Una cosa è certa, se osasse chiedere ai sedicenti seguaci del Che come possano celebrare un uomo così profondamente compromesso con una delle ideologie totalitarie del XX secolo, verrebbe sicuramente additato come diabolico provocatore di destra. Il Che non rappresenta forse l’eroismo ribelle?
Ma a quanto pare, la sinistra post-adolescenziale nordamericana non è la sola a cullarsi nel culto di Che Guevara. Di recente si è saputo che anche Anne Hidalgo è diventata una seguace del rivoluzionario cubano. Nell’ambito di una mostra commemorativa organizzata presso l’Hôtel de Ville di Parigi (la sede del Comune – ndt), il sindaco ha definito Che Guevara “un’icona militante e romantica”. I più indulgenti vedranno in tale gesto un segno evidente della pigrizia intellettuale di questa donna, ossessionata dall’idea di incarnare il futuro della sinistra, e che a tale scopo, senza fare troppi sforzi, si appropria dei simboli rivoluzionari più famosi. Ma bisogna guardare oltre. La dichiarazione del sindaco di Parigi testimonia la condiscendenza generalizzata con cui una buona parte dell’élite intellettuale e politica valuta la storia del comunismo del XX secolo.
Ufficialmente, la sinistra ha fatto il suo dovere, riconsiderando i fatti e riconoscendo le devastazioni causate dal comunismo. Ma non è assolutamente in grado di condannare i suoi crimini, anche se nel 1997 la pubblicazione del Libro nero del comunismo suscitò una grande indignazione. Tuttavia, si può credere alla sincerità della sua conversione; che però rimane incompiuta, poiché intellettualmente incompleta. Attualmente, invece di contestare i crimini del comunismo, si cerca piuttosto di relativizzarli, evocando nello stesso tempo quelli del capitalismo o del colonialismo. Ma soprattutto, nel ricordare il comunismo, si circoscrive la sua fase negativa alle esperienze dell’Unione Sovietica, della Cina maoista e del genocidio cambogiano. Si innalza il vessillo terzomondista, convinti in questo modo di poter fornire delle circostanze attenuanti e salvare dalla condanna la parte migliore del comunismo.
È così che, nel novembre del 2016, il primo ministro canadese Justin Trudeau - che non perde occasione per fare la morale a tutti in nome dei diritti umani - ha confessato la propria “profonda tristezza” per la morte di Castro, prima di ammettere con fatica che questi fu un dittatore. In ciò simile a suo padre, Pierre Trudeau, che a suo tempo aveva manifestato la sua amicizia per Castro e la sua ammirazione per Mao. In altre parole, il giudizio finale sul comunismo o sulla benevolenza con la quale lo si considera resta sempre molto parziale, e basta poco per trovare continuamente nuove giustificazioni. D’altronde, ancora oggi si attribuisce spesso a Stalin la responsabilità principale ed esclusiva dei crimini commessi dal comunismo. Una leggenda che Stéphane Courtois – in una sua recente biografia dedicata a Lenin – ha sfatato del tutto. Lo storico dimostra infatti che nella Russia sovietica fu proprio Lenin l’inventore del totalitarismo.
Questo ricordo confuso del comunismo è particolarmente vivo in Francia, dove una cospicua parte dell’intellighenzia ha ceduto al fascino del comunismo e vuole ancora credere di aver sbagliato per delle buone ragioni. Di tanto in tanto, si esaltano ancora gli ideali comunisti per ridimensionare l’esperienza totalitaria, come se quei regimi avessero commesso dei crimini ma senza l’intenzione di farlo.
D’altronde, molti elementi ideologici dell’epoca sono sopravvissuti. In particolare, l’abitudine di considerare reazionari i fatti sgradevoli che entrano in contraddizione con l’utopia progressista del momento. Il multiculturalismo e le altre ideologie antioccidentali beneficiano oggi della stessa clemenza di cui ha beneficiato ieri il comunismo. Ciò non toglie che Ernesto Guevara si sia compiaciuto delle esecuzioni compiute dai rivoluzionari, come testimonia il suo viaggio alla fortezza della Cabaña, e che non esitava a giustificarle in nome di una guerra all’ultimo sangue contro il sistema. Ma, ne conveniamo, il Che non è passato alla storia come un torturatore, e la coscienza collettiva sembra refrattaria a definirlo in base alle sue azioni. Per i suoi ammiratori, Che Guevara sembra incarnare la parte più irriducibilmente romantica della battaglia comunista del XX secolo, per la quale il fuoco della rivoluzione deve ardere sempre e non estinguersi mai. Ad oltre cinquant’anni dalla sua morte, egli rappresenta ancora l’incandescente passione rivoluzionaria e la consacrazione al sacrificio estremo; cosa che, in una società di sentimenti politici sopiti, può far sognare. Così, non sorprenderà il fatto che il Che abbia trovato ammiratori persino fra i suoi nemici. Il sacrificio rivoluzionario fa esaltare i fanatici, che erotizzano la possibilità di morire di una morte violenta. Ma questo fantasma romantico si scontra con la realtà: commemorare il comunismo con benevolenza significa non comprenderne il carattere intrinsecamente totalitario. Cantare le lodi del Che significa ammettere involontariamente di non capire cosa è accaduto nel XX secolo. Si tratta di quel processo che tardiamo a fare: il processo all’utopismo come tendenza totalitaria della modernità. Chi crede di aver avuto la rivelazione della società perfetta, ed è convinto la scienza l’abbia confermata come veritiera, crederà anche che tutto gli sia permesso, al fine di poterla realizzare. Allora trasforma i suoi avversari in nemici dell’umanità: le forze vive del mondo nuovo devono tagliare tutti i rami secchi che ricordano il mondo di ieri. E’ la storia del comunismo, che è dietro di noi, ma è ancora oggi la storia delle forze progressiste. Una storia che continua, indossando nuovi abiti ideologici. I quali, ancora una volta, fanno perdere la ragione a troppi intellettuali.
© Mathieu Bock-Côté, 2018, Le Figaro
La sinistra post adolescenziale e il culto di Che Guevara
Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, rende omaggio al rivoluzionario cubano e lo celebra come “icona romantica”. Il nostro cronista canadese vede in questo gesto la cecità volontaria di una parte della sinistra nei confronti della vera natura del comunismo.
È una scena che si ripete spesso nelle università nordamericane, soprattutto nelle facoltà umanistiche o di scienze sociali: un professore entra in classe e nota che alcuni studenti indossano una maglietta su cui campeggia il ritratto di Che Guevara. O magari non ci fa neanche più caso, tanto la cosa è diventata comune. Forse ne gioisce in silenzio? Una cosa è certa, se osasse chiedere ai sedicenti seguaci del Che come possano celebrare un uomo così profondamente compromesso con una delle ideologie totalitarie del XX secolo, verrebbe sicuramente additato come diabolico provocatore di destra. Il Che non rappresenta forse l’eroismo ribelle?
Ma a quanto pare, la sinistra post-adolescenziale nordamericana non è la sola a cullarsi nel culto di Che Guevara. Di recente si è saputo che anche Anne Hidalgo è diventata una seguace del rivoluzionario cubano. Nell’ambito di una mostra commemorativa organizzata presso l’Hôtel de Ville di Parigi (la sede del Comune – ndt), il sindaco ha definito Che Guevara “un’icona militante e romantica”. I più indulgenti vedranno in tale gesto un segno evidente della pigrizia intellettuale di questa donna, ossessionata dall’idea di incarnare il futuro della sinistra, e che a tale scopo, senza fare troppi sforzi, si appropria dei simboli rivoluzionari più famosi. Ma bisogna guardare oltre. La dichiarazione del sindaco di Parigi testimonia la condiscendenza generalizzata con cui una buona parte dell’élite intellettuale e politica valuta la storia del comunismo del XX secolo.
Ufficialmente, la sinistra ha fatto il suo dovere, riconsiderando i fatti e riconoscendo le devastazioni causate dal comunismo. Ma non è assolutamente in grado di condannare i suoi crimini, anche se nel 1997 la pubblicazione del Libro nero del comunismo suscitò una grande indignazione. Tuttavia, si può credere alla sincerità della sua conversione; che però rimane incompiuta, poiché intellettualmente incompleta. Attualmente, invece di contestare i crimini del comunismo, si cerca piuttosto di relativizzarli, evocando nello stesso tempo quelli del capitalismo o del colonialismo. Ma soprattutto, nel ricordare il comunismo, si circoscrive la sua fase negativa alle esperienze dell’Unione Sovietica, della Cina maoista e del genocidio cambogiano. Si innalza il vessillo terzomondista, convinti in questo modo di poter fornire delle circostanze attenuanti e salvare dalla condanna la parte migliore del comunismo.
È così che, nel novembre del 2016, il primo ministro canadese Justin Trudeau - che non perde occasione per fare la morale a tutti in nome dei diritti umani - ha confessato la propria “profonda tristezza” per la morte di Castro, prima di ammettere con fatica che questi fu un dittatore. In ciò simile a suo padre, Pierre Trudeau, che a suo tempo aveva manifestato la sua amicizia per Castro e la sua ammirazione per Mao. In altre parole, il giudizio finale sul comunismo o sulla benevolenza con la quale lo si considera resta sempre molto parziale, e basta poco per trovare continuamente nuove giustificazioni. D’altronde, ancora oggi si attribuisce spesso a Stalin la responsabilità principale ed esclusiva dei crimini commessi dal comunismo. Una leggenda che Stéphane Courtois – in una sua recente biografia dedicata a Lenin – ha sfatato del tutto. Lo storico dimostra infatti che nella Russia sovietica fu proprio Lenin l’inventore del totalitarismo.
Questo ricordo confuso del comunismo è particolarmente vivo in Francia, dove una cospicua parte dell’intellighenzia ha ceduto al fascino del comunismo e vuole ancora credere di aver sbagliato per delle buone ragioni. Di tanto in tanto, si esaltano ancora gli ideali comunisti per ridimensionare l’esperienza totalitaria, come se quei regimi avessero commesso dei crimini ma senza l’intenzione di farlo.
D’altronde, molti elementi ideologici dell’epoca sono sopravvissuti. In particolare, l’abitudine di considerare reazionari i fatti sgradevoli che entrano in contraddizione con l’utopia progressista del momento. Il multiculturalismo e le altre ideologie antioccidentali beneficiano oggi della stessa clemenza di cui ha beneficiato ieri il comunismo. Ciò non toglie che Ernesto Guevara si sia compiaciuto delle esecuzioni compiute dai rivoluzionari, come testimonia il suo viaggio alla fortezza della Cabaña, e che non esitava a giustificarle in nome di una guerra all’ultimo sangue contro il sistema. Ma, ne conveniamo, il Che non è passato alla storia come un torturatore, e la coscienza collettiva sembra refrattaria a definirlo in base alle sue azioni. Per i suoi ammiratori, Che Guevara sembra incarnare la parte più irriducibilmente romantica della battaglia comunista del XX secolo, per la quale il fuoco della rivoluzione deve ardere sempre e non estinguersi mai. Ad oltre cinquant’anni dalla sua morte, egli rappresenta ancora l’incandescente passione rivoluzionaria e la consacrazione al sacrificio estremo; cosa che, in una società di sentimenti politici sopiti, può far sognare. Così, non sorprenderà il fatto che il Che abbia trovato ammiratori persino fra i suoi nemici. Il sacrificio rivoluzionario fa esaltare i fanatici, che erotizzano la possibilità di morire di una morte violenta. Ma questo fantasma romantico si scontra con la realtà: commemorare il comunismo con benevolenza significa non comprenderne il carattere intrinsecamente totalitario. Cantare le lodi del Che significa ammettere involontariamente di non capire cosa è accaduto nel XX secolo. Si tratta di quel processo che tardiamo a fare: il processo all’utopismo come tendenza totalitaria della modernità. Chi crede di aver avuto la rivelazione della società perfetta, ed è convinto la scienza l’abbia confermata come veritiera, crederà anche che tutto gli sia permesso, al fine di poterla realizzare. Allora trasforma i suoi avversari in nemici dell’umanità: le forze vive del mondo nuovo devono tagliare tutti i rami secchi che ricordano il mondo di ieri. E’ la storia del comunismo, che è dietro di noi, ma è ancora oggi la storia delle forze progressiste. Una storia che continua, indossando nuovi abiti ideologici. I quali, ancora una volta, fanno perdere la ragione a troppi intellettuali.
© Mathieu Bock-Côté, 2018, Le Figaro
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