Le uova rotte di una “grande frittata”: la globalizzazione...
L'autore, Eric Zemmour, uno dei più noti giornalisti e scrittori di Francia, recensisce un libro recentemente apparso nelle librerie francesi: "La tentation du repli" (La tentazione del ripiegamento), di Philippe Moreau Defarges, edizioni Odile Jacob.
nota della redazione
Un racconto ricco e dettagliato della storia della globalizzazione e del nazionalismo attraverso le varie epoche storiche, ma fondato su un pregiudizio progressista che l’autore non riesce a celare.
È la battaglia del secolo. Del nostro secolo. Battaglia ideologica, intellettuale, politica, economica, culturale. Una lotta all’ultimo sangue. Nel 1991, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, il processo di omologazione globale sembrava inevitabile. Gli inglesi, forse meno inclini all’invenzione letteraria e all’astrazione, ma sicuramente più realisti di noi, parlavano di “globalizzazione”. Dimostrando così di aver compreso, meglio di noi, che si trattava innanzitutto di un fenomeno economico e finanziario: globalizzare significava impadronirsi della terra, delle sue risorse e degli uomini, ignorando le frontiere, gli Stati e i popoli. Questo era l’obiettivo di un capitalismo che stava ritrovando la sua carica rivoluzionaria – dote che già Karl Marx, a suo tempo, gli aveva riconosciuto. In seguito, iniziarono i movimenti di rivolta. Rivolta sociale contro le disuguaglianze; rivolta ecologista contro la depredazione delle risorse naturali; rivolta dei popoli occidentali contro l’invasione migratoria partita dal Sud. La globalizzazione aveva trovato il suo antidoto: il nazionalismo.
La guerra delle parole è la madre di tutte le guerre. Ogni fazione vuole imporre le proprie definizioni e abolire quelle dell’avversario. E allora si combatte: élite globalizzate contro populisti, “plutocrati” contro “proletari”, universalisti contro nazionalisti. La religione che venera l’Altro – il diverso, lo straniero – si scontra con la difesa dell’identità dei popoli. Ogni fazione accusa l’altra di voler arrivare alla guerra di tutti contro tutti. C’è poi chi tenta di salvare capre e cavoli. Come quella sinistra “altromondista” che fin dall’inizio si oppose alla globalizzazione capitalista, ma senza rinnegare la sua tendenza all’universalismo ereditata dal comunismo. Finendo così per essere travolta.
Oltre ad essere politica, la battaglia è ideologica. Ed è proprio sul piano della propaganda che i fautori della globalizzazione hanno goduto per lungo tempo di un vantaggio enorme: mass media, università, partiti di governo, grandi imprese e istituzioni internazionali, i globalisti controllavano – e controllano ancora – tutti i mezzi di comunicazione, schiacciando i loro oppositori con la pretenziosa arroganza. Quello è il “tempo perduto” che Philippe Moreau Defarges sembra rimpiangere, quando, nell’introduzione al suo libro, evoca la comparsa della parola “localismo”: “Una parola appare, e il mondo viene completamente trasformato. Questa parola apre nuovi percorsi, nuove possibilità, che ben presto si rivelano progetti disastrosi o strade senza uscita”.
Usando un’espressione che fu cara ai marxisti, possiamo dire che fin dalle prime righe si intuisce “da dove parla” il nostro autore. Il titolo del libro ci aveva già illuminato sul suo contenuto: La tentation du repli, la tentazione del ripiegamento, è un’espressione spesso utilizzata per denunciare le “pulsioni protezioniste e nazionaliste” dei popoli. Le loro “passioni tristi”, come dicono le nostre élite. D’altronde, proseguendo ancora secondo la chiave di lettura marxista, comprendiamo che non poteva essere altrimenti: Defarges, diplomatico per formazione, lavora come ricercatore per l’Istituto Francese di Relazioni Internazionali (IFRI), e ha insegnato presso lo Sciences Po (Istituto di studi politici di Parigi).
Dunque, nella sua ricostruzione storica, la globalizzazione costituisce un “plurisecolare processo di appropriazione delle terre da parte degli uomini”. Globalizzazione associata al progresso. Progresso associato al libero scambio. Libero scambio associato alla pace. Pace garantita da un Impero marittimo, ovvero l’Inghilterra, e poi dagli Stati Uniti, potenza benevola e benefattrice. Il nostro autore è uno di quei francesi illuminati – numerosi in tutte le epoche, ma in particolar modo negli ultimi decenni – che mettono l’eleganza della loro penna, la chiarezza del loro pensiero e l’innegabile profondità della loro cultura storica – qualità tradizionalmente riconosciute da secoli alle élite francesi – al servizio della glorificazione di coloro che hanno affondato la potenza francese: prima di tutto l’Inghilterra, poi gli Stati Uniti. La vittoria del Mare sulla Terra. Philippe Moreau Defarges descrive con grande abilità le tre fasi della globalizzazione: scoperta dell’America (1492); industrializzazione dell’Europa (XIX secolo); e, infine, caduta dell’Unione Sovietica (1991).
Ma lo scrittore fa sua l’opinione dominante secondo la quale gli anglosassoni avrebbero conquistato il dominio sugli altri Stati grazie al commercio e alla libertà di scambio. Opinione sostenuta dai teorici liberali; che tuttavia non tiene conto di un elemento essenziale: la potenza industriale dell’Inghilterra (nata nel XVIII secolo) e degli Stati Uniti (nel XIX secolo) è stata costruita attraverso un protezionismo feroce. Questi due Paesi sono diventati paladini del libero scambio solo dopo che la loro superiorità industriale fu in grado di schiacciare i loro concorrenti, tanto stolti da accettare le regole di una gara truccata. Non è grazie alla loro ricchezza economica che questi Stati sono riusciti a dominare il mondo, ma grazie alla superiorità militare della loro Marina e alla loro natura geopolitica di isole protette da qualsiasi invasione.
Le successive sconfitte delle nazioni continentali, come Francia, Germania, Russia, sono descritte dal nostro autore come l’inevitabile risultato del ripiegamento su sé stessi di imperi chiusi, isolati, condannati a soccombere fin dall’inizio. Come se i governanti di questi paesi avessero atteso la sconfitta per comprendere l’enorme importanza strategica della Marina nell’ambito della guerra planetaria. Ma la realtà è questa: la storia viene scritta dai vincitori, e Defarges è il loro zelante scrivano.
Nella sua opera, i danni provocati dalla globalizzazione sono considerati l’inevitabile nonché necessario prezzo da pagare per il progresso: da quanto scrive Defarges riguardo alla “scomparsa degli indiani d’America”, causata dalla conquista del West, è evidente quale sia la sua opinione sui popoli europei soggetti alle ondate migratorie provenienti da Sud. Dopotutto, non è possibile fare una frittata senza rompere le uova!
Ma la globalizzazione sta cambiando. Cambiano i protagonisti, e cambia lo spirito del movimento globalista. A causa di un duplice fenomeno: innanzitutto, l’acerrima rivalità fra Cina e Stati Uniti, che rientra ormai in uno schema ben noto agli storici, cioè quello del conflitto fra una potenza imperiale marittima in declino e una potenza continentale aggressiva. E poi, la rivolta dei popoli di tutto il mondo, Europa, America, ma anche Turchia, India, Russia, ecc., che provano a riprendere in mano il proprio destino e a salvaguardare la loro identità etnica e nazionale. Ovviamente, da par suo, Defarges accusa questo deprecabile “populismo” di condurre alla guerra. Senza capire – o piuttosto, senza voler capire – che esistono cose peggiori della guerra. Come la morte. La scomparsa. L’oblio.
© Éric Zemmour, 2018, Le Figaro
Le uova rotte di una “grande frittata”: la globalizzazione...
L'autore, Eric Zemmour, uno dei più noti giornalisti e scrittori di Francia, recensisce un libro recentemente apparso nelle librerie francesi: "La tentation du repli" (La tentazione del ripiegamento), di Philippe Moreau Defarges, edizioni Odile Jacob.
nota della redazione
Un racconto ricco e dettagliato della storia della globalizzazione e del nazionalismo attraverso le varie epoche storiche, ma fondato su un pregiudizio progressista che l’autore non riesce a celare.
È la battaglia del secolo. Del nostro secolo. Battaglia ideologica, intellettuale, politica, economica, culturale. Una lotta all’ultimo sangue. Nel 1991, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, il processo di omologazione globale sembrava inevitabile. Gli inglesi, forse meno inclini all’invenzione letteraria e all’astrazione, ma sicuramente più realisti di noi, parlavano di “globalizzazione”. Dimostrando così di aver compreso, meglio di noi, che si trattava innanzitutto di un fenomeno economico e finanziario: globalizzare significava impadronirsi della terra, delle sue risorse e degli uomini, ignorando le frontiere, gli Stati e i popoli. Questo era l’obiettivo di un capitalismo che stava ritrovando la sua carica rivoluzionaria – dote che già Karl Marx, a suo tempo, gli aveva riconosciuto. In seguito, iniziarono i movimenti di rivolta. Rivolta sociale contro le disuguaglianze; rivolta ecologista contro la depredazione delle risorse naturali; rivolta dei popoli occidentali contro l’invasione migratoria partita dal Sud. La globalizzazione aveva trovato il suo antidoto: il nazionalismo.
La guerra delle parole è la madre di tutte le guerre. Ogni fazione vuole imporre le proprie definizioni e abolire quelle dell’avversario. E allora si combatte: élite globalizzate contro populisti, “plutocrati” contro “proletari”, universalisti contro nazionalisti. La religione che venera l’Altro – il diverso, lo straniero – si scontra con la difesa dell’identità dei popoli. Ogni fazione accusa l’altra di voler arrivare alla guerra di tutti contro tutti. C’è poi chi tenta di salvare capre e cavoli. Come quella sinistra “altromondista” che fin dall’inizio si oppose alla globalizzazione capitalista, ma senza rinnegare la sua tendenza all’universalismo ereditata dal comunismo. Finendo così per essere travolta.
Oltre ad essere politica, la battaglia è ideologica. Ed è proprio sul piano della propaganda che i fautori della globalizzazione hanno goduto per lungo tempo di un vantaggio enorme: mass media, università, partiti di governo, grandi imprese e istituzioni internazionali, i globalisti controllavano – e controllano ancora – tutti i mezzi di comunicazione, schiacciando i loro oppositori con la pretenziosa arroganza. Quello è il “tempo perduto” che Philippe Moreau Defarges sembra rimpiangere, quando, nell’introduzione al suo libro, evoca la comparsa della parola “localismo”: “Una parola appare, e il mondo viene completamente trasformato. Questa parola apre nuovi percorsi, nuove possibilità, che ben presto si rivelano progetti disastrosi o strade senza uscita”.
Usando un’espressione che fu cara ai marxisti, possiamo dire che fin dalle prime righe si intuisce “da dove parla” il nostro autore. Il titolo del libro ci aveva già illuminato sul suo contenuto: La tentation du repli, la tentazione del ripiegamento, è un’espressione spesso utilizzata per denunciare le “pulsioni protezioniste e nazionaliste” dei popoli. Le loro “passioni tristi”, come dicono le nostre élite. D’altronde, proseguendo ancora secondo la chiave di lettura marxista, comprendiamo che non poteva essere altrimenti: Defarges, diplomatico per formazione, lavora come ricercatore per l’Istituto Francese di Relazioni Internazionali (IFRI), e ha insegnato presso lo Sciences Po (Istituto di studi politici di Parigi).
Dunque, nella sua ricostruzione storica, la globalizzazione costituisce un “plurisecolare processo di appropriazione delle terre da parte degli uomini”. Globalizzazione associata al progresso. Progresso associato al libero scambio. Libero scambio associato alla pace. Pace garantita da un Impero marittimo, ovvero l’Inghilterra, e poi dagli Stati Uniti, potenza benevola e benefattrice. Il nostro autore è uno di quei francesi illuminati – numerosi in tutte le epoche, ma in particolar modo negli ultimi decenni – che mettono l’eleganza della loro penna, la chiarezza del loro pensiero e l’innegabile profondità della loro cultura storica – qualità tradizionalmente riconosciute da secoli alle élite francesi – al servizio della glorificazione di coloro che hanno affondato la potenza francese: prima di tutto l’Inghilterra, poi gli Stati Uniti. La vittoria del Mare sulla Terra. Philippe Moreau Defarges descrive con grande abilità le tre fasi della globalizzazione: scoperta dell’America (1492); industrializzazione dell’Europa (XIX secolo); e, infine, caduta dell’Unione Sovietica (1991).
Ma lo scrittore fa sua l’opinione dominante secondo la quale gli anglosassoni avrebbero conquistato il dominio sugli altri Stati grazie al commercio e alla libertà di scambio. Opinione sostenuta dai teorici liberali; che tuttavia non tiene conto di un elemento essenziale: la potenza industriale dell’Inghilterra (nata nel XVIII secolo) e degli Stati Uniti (nel XIX secolo) è stata costruita attraverso un protezionismo feroce. Questi due Paesi sono diventati paladini del libero scambio solo dopo che la loro superiorità industriale fu in grado di schiacciare i loro concorrenti, tanto stolti da accettare le regole di una gara truccata. Non è grazie alla loro ricchezza economica che questi Stati sono riusciti a dominare il mondo, ma grazie alla superiorità militare della loro Marina e alla loro natura geopolitica di isole protette da qualsiasi invasione.
Le successive sconfitte delle nazioni continentali, come Francia, Germania, Russia, sono descritte dal nostro autore come l’inevitabile risultato del ripiegamento su sé stessi di imperi chiusi, isolati, condannati a soccombere fin dall’inizio. Come se i governanti di questi paesi avessero atteso la sconfitta per comprendere l’enorme importanza strategica della Marina nell’ambito della guerra planetaria. Ma la realtà è questa: la storia viene scritta dai vincitori, e Defarges è il loro zelante scrivano.
Nella sua opera, i danni provocati dalla globalizzazione sono considerati l’inevitabile nonché necessario prezzo da pagare per il progresso: da quanto scrive Defarges riguardo alla “scomparsa degli indiani d’America”, causata dalla conquista del West, è evidente quale sia la sua opinione sui popoli europei soggetti alle ondate migratorie provenienti da Sud. Dopotutto, non è possibile fare una frittata senza rompere le uova!
Ma la globalizzazione sta cambiando. Cambiano i protagonisti, e cambia lo spirito del movimento globalista. A causa di un duplice fenomeno: innanzitutto, l’acerrima rivalità fra Cina e Stati Uniti, che rientra ormai in uno schema ben noto agli storici, cioè quello del conflitto fra una potenza imperiale marittima in declino e una potenza continentale aggressiva. E poi, la rivolta dei popoli di tutto il mondo, Europa, America, ma anche Turchia, India, Russia, ecc., che provano a riprendere in mano il proprio destino e a salvaguardare la loro identità etnica e nazionale. Ovviamente, da par suo, Defarges accusa questo deprecabile “populismo” di condurre alla guerra. Senza capire – o piuttosto, senza voler capire – che esistono cose peggiori della guerra. Come la morte. La scomparsa. L’oblio.
© Éric Zemmour, 2018, Le Figaro
Riproduzione riservata