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Lo «Swiss made», un marchio problematico

Un anno dopo l’entrata in vigore di nuove norme, la Federazione dell’orologeria Svizzera si organizza per richiamare all’ordine i recalcitranti e gli impostori. Alcuni esperti indipendenti saranno incaricati di verificare la produzione elvetica.

Dopo più di due anni di crisi, il sollievo è tangibile: da maggio scorso la curva delle esportazioni nel settore dell’orologeria svizzera è tornata a crescere. L’incremento, per l’intero anno 2017, risulta pari al 2,7%, con un volume d’affari complessivo che arriva così a sfiorare i 20 miliardi di franchi svizzeri (circa 17,2 miliardi di euro). Ma questo settore non ha ancora sciolto alcuni nodi. In particolare, esso si interroga sull’opportunismo e lo scarso spessore tecnico-aziendale di alcuni marchi, oltre che sulla questione della conformità ai nuovi criteri dello “Swiss made”. A distanza di un anno dalla loro entrata in vigore, la Federazione dell’industria dell’orologeria Svizzera (FH) ha recentemente annunciato la costituzione di una “task force” incaricata di controllare che le nuove norme vengano rispettate correttamente. Ci sono voluti più di dieci anni di discussioni, spesso molto accese, sia a livello politico che a livello industriale, per far sì che a partire dal 1° gennaio 2017 lo “Swiss made” riuscisse ad imporsi. Questo marchio di qualità, che in un primo momento garantiva unicamente il movimento interno, oggi tiene conto anche del corpo dell’orologio, cassa e quadrante inclusi. Inoltre, le operazioni effettuate in Svizzera devono rappresentare almeno il 60% dei costi di produzione, rispetto al 50% vigente in precedenza. Infine, l’intero sviluppo tecnico deve essere realmente svizzero.

Si tratta quindi di una revisione profonda, realizzata con un margine di manovra molto esiguo. A questo bisogna poi aggiungere il rispetto delle regole stabilite dall’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e dei vincoli derivanti dagli accordi di libero scambio, in particolare tra l’Unione europea e la Cina.

Il nuovo marchio “Swiss made”, tuttavia, non riscontra un consenso unanime. “È ancora davvero troppo facile! Ricorrendo a vari espedienti si riesce a raggiungere facilmente la soglia del 60%”, inveisce Édouard Meylan - AD del brand H. Moser & Cie  - che produce 1.500 orologi all’anno con un prezzo medio intorno ai 30.000 euro. Questo fervido difensore dell’autentica orologeria svizzera non modera i termini: “Alcuni produttori di orologi spendono milioni in marketing, a discapito della creazione, della ricerca e dello sviluppo, e quindi della qualità. È risaputo che esistono movimenti i cui componenti sono per il 90% prodotti in Asia. Ma essendo poi “ritoccati” in Svizzera, si lascia correre”.

Della necessità di aggirare le regole

Consapevole delle possibili derive, la FH non ha aspettato il termine della fase transitoria, previsto per la fine del 2018. La «task force», formata da esperti indipendenti, concentrerà il suo lavoro sulle attività di produzione e sugli impianti, avendo come mission quella di analizzare i casi concreti e di effettuare, eventualmente, le dovute verifiche all’interno delle stesse aziende.

“Non eseguiremo controlli sistematici: agiremo unicamente in caso di sospetti. L’idea è quella di creare degli strumenti utili a soddisfare gli stringenti criteri fissati da questa nuova legge. Visto che quest’ultima è diventata più complessa, noi dobbiamo essere più puntuali. Riassumendo, si tratterà di una specie di tribunale arbitrale specializzato”, dichiara Jean-Daniel Pasche, presidente della Federazione.

Il nuovo organismo di sorveglianza dovrebbe vedere la luce nel corso del 2018 e sembra riscuotere ampio consenso anche da parte di chi è contrario alle nuove norme: primo fra tutti Ronnie Bernheim, a capo del gruppo Mondaine - che produce diverse centinaia di migliaia di orologi di bassa e media gamma, sotto i marchi Luminox, Pierre Cardin, MWatch e naturalmente Mondaine. Oggi, seppure amareggiato, Bernheim dichiara: “Una volta che l’ordinanza è entrata in vigore, non serve più a niente combatterla, bisogna adeguarsi. Ma sta accadendo ciò che prevedevo: diversi marchi di fascia bassa hanno dovuto rinunciare a fabbricare prodotti marchiati ‘Swiss made’, perché con le nuove norme questi sarebbero diventati troppo costosi per il loro segmento di mercato; allo stesso modo, alcuni componenti di importazione hanno dovuto essere semplificati per poter essere meno onerosi - come nel caso di alcuni fondelli a cui sono state tolte le viti - mentre altri ancora non vengono più prodotti in Svizzera, bensì in Estremo Oriente. Anche il campo del ‘Private Label’ ha sofferto moltissimo”.

Prossima tappa: la FH dovrà nominare gli esperti e fissare le regole di funzionamento della task force. Si tratta di regole che, al di là di ogni spirito di disponibilità, rischiano di scontrarsi presto con i limiti del sistema giuridico vigente: “Stiamo parlando di proprietà intellettuale, quindi di diritto privato. Ciò significa che nessuna autorità può intervenire in via automatica. È il settore che deve provvedere ad organizzarsi”, dichiara Jean-Daniel Pasche. Questa fragilità non è sfuggita a Ronnie Bernheim, peraltro favorevole ai controlli: “La FH non è un’istituzione giudiziaria e non rappresenta gli interessi di tutto il settore. Se un produttore nega l’accesso alla propria fabbrica, soltanto un giudice può prendere una decisione in merito”.

© Fabrice Eschmann, 2018, Le Figaro