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«Non è solo Bizet che stiamo uccidendo»

Il 7 gennaio 2018, al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, è andata in scena la prima della Carmen di Georges Bizet. Il regista, l'italiano Leo Muscato, ha cambiato il finale, facendo sì che Carmen non muoia ma si ribelli al suo aguzzino, Don Josè, sparandogli. Nelle intenzioni, un atto d'accusa contro il femminicidio. Inoltre, l'opera è trasposta in un campo Rom. Non sono mancate le polemiche su queste scelte del regista. Gilles-William Goldnadel, uno dei più noti saggisti francesi, affronta la questione.

nota della redazione

Splendida notizia per le donne, ma forse meno entusiasmante per coloro che le molestano: Carmen non muore più assassinata, perché è invece lei ad uccidere Don José, trasformato in un post-franchista.

Per decreto della sovrintendenza del Teatro dell’Opera di Firenze, il regista Leo Muscato ha deciso di modificare il tragico epilogo della bella sigaraia gitana.

Infatti, secondo il sovrintendente del Maggio Musicale Fiorentino (Cristiano Chiarot - ndt), un alfiere del progressismo, «in un’epoca come la nostra, segnata dal flagello di ogni tipo di violenza nei confronti delle donne, è inconcepibile che si possa applaudire ad un femminicidio».

Ogni settimana, e con una certa costanza, continuo a scrivere sulle colonne di questo giornale che la nostra epoca è pericolosamente nevrotica.

Dalla fine dell’estate scorsa, e dopo le isterie mediatiche giunte dagli Stati Uniti, non posso far altro che documentare una serie di reazioni incontrollate.

Le rivolte estive di Charlottesville (Usa), con la distruzione delle statue dei generali sudisti, hanno attraversato l’oceano e provocato un desiderio di emulazione fin nel cuore di Parigi, dove si è invocato l’abbattimento delle statue di Colbert e di Dugommier(1), sostenitori dello schiavismo.

La stessa isteria vendicatrice si è scatenata – in seguito alle molestie hollywoodiane del caso Weinstein – anche in Francia. Dove non soltanto vengono pubblicamente defenestrati, con cadenza settimanale, presunti molestatori francesi ma – fatto ancor più grave –  le dichiarazioni ufficiali vengono rivisitate e rigorosamente corrette.

È in questo contesto, totalmente irrazionale, che subito prima delle feste natalizie sono stato spinto a deplorare il trattamento toccato in sorte ad un attore comico di nome Tex, liquidato, nell’indifferenza di tutti, come “immorale” dalla televisione pubblica per aver egli osato fare dell’humour noir a proposito di una donna immaginaria, con un altrettanto immaginario occhio nero.

A tutti i dubbiosi che si stanno chiedendo come la tragicommedia di Carmen possa inserirsi nell’ambito di questo rigido revisionismo, segnalo un articolo senza scrupoli, pubblicato lo scorso 5 gennaio sul sito di France Culture, nel quale Olivier Py - che come tutti sanno troneggia ad Avignone quale papa della cultura progressista(2) - manifesta il suo apprezzamento verso tale operazione, con dichiarazioni molto eloquenti.

Alla domanda, che ritengo piuttosto pertinente, “è giusto cambiare il finale di un’opera lirica scritta nel XIX secolo?”, Olivier Py – che si vanta di aver già “sistemato” Don José nel 2012, in un adattamento per l’Opéra di Lione – risponde con cognizione di causa: “Carmen non moriva neanche nella mia versione di Lione: si rialzava e se ne andava, come se il gesto di Don José contro di lei non fosse stato mortale, praticamente abbandonando quest’ultimo al suo destino”.

Poi, la seguente sentenza moraleggiante, ad maiorem: “ritengo che il modo in cui sono trattati i personaggi femminili in alcune opere del XIX secolo non sia più accettabile al giorno d’oggi. Posso quindi capire che si proponga di immaginare un finale differente”.

Per persuadere gli scettici del fatto che la revisione femminista radicalmente “impegnata” è inevitabilmente connessa alla cultura di sinistra di tutti i tempi, gioverà sapere che, a Firenze, Leo Moscato – tutto preso dal suo ardente desiderio revisionista - ha anche trasposto l’opera di Bizet in un campo Rom degli anni ’80, illegalmente occupato dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa: “Carmen, che lavora in una manifattura tabacchi nei pressi del campo Rom, viene sottomessa a colpi di manganello dall’irascibile e violento poliziotto Don José” (Le Monde, 5 gennaio 2018).

Altolà! Non si pestano più le gitane. Soltanto i poliziotti.

In questo modo, destinando alla morte Don José, l’uomo di teatro progressista non sopprime solamente un maschio spagnolo troppo dominante, ma anche un poliziotto fascistoide…

Quindi, facendomi alacre collaboratore dei demiurghi progressisti che vogliono ormai revisionare la cultura, oggi inaccettabile, di un passato ormai superato - proporrei urgentemente le seguenti modifiche:

  • ne I Miserabili di Victor Hugo, la piccola operaia Fantine, costretta miseramente alla prostituzione, invece di morire di fame potrebbe, con un gesto civico di rivolta femminile, strangolare l’ispettore Javert con le sue povere mani;
  • in Schindler’s list, Spielberg – nel caso fosse redarguito – potrebbe far impiccare le SS di Hitler dagli ebrei furibondi;
  • in via ancora più categorica, proporrei che alla fine sia sempre il cattivo a morire. Quindi il soldato o il poliziotto, meglio se europeo;
  • più in generale, suggerirei di adottare d’ufficio un lieto fine per tutti i morti di fame.

Ma bando alle chiacchiere. La verità è che, a furia di contestazioni, l’isterica stupidità ideologica, fortemente mediatizzata, sta facendo impazzire come una maionese l’universo intellettuale e culturale dell’Occidente.

In questo modo, non stiamo uccidendo soltanto Bizet, ma - molto più semplicemente - la ragione.


1) Jean-Baptiste Colbert, ministro di Luigi XIV e autore del Codice Nero (1685) che disciplinava la schiavitù nelle colonie. La sua statua si trova presso l’Assemblea Nazionale. Dugommier è stato un generale francese e fervido sostenitore dello schiavismo nel XVIII secolo.

(2) Olivier Py è direttore del Festival di Avignone, un'importante manifestazione teatrale che si tiene ogni estate nella città francese.

© Gilles-William Goldnadel, 2018, Le Figaro