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Occupazione e precariato vanno di pari passo

Qualche analista ha parlato di “livello occupazionale più alto registrato in Italia negli ultimi quarant’anni”, ma non c’è da cantare vittoria.

Sebbene siano state 65mila le persone che dal 2017 a oggi, in Italia, hanno trovato un lavoro, è anche aumentata l’incidenza dei contratti a termine, dei lavori occasionali o stagionali, spesso sottopagati.

Nell’ambito dei nuovi occupati aggiuntivi, solo un lavoratore su sei ha ottenuto un contratto a tempo indeterminato. E, nel complesso, la crescita di questo tipo di contratti è appena dello 0,3%.

L’Italia è, purtroppo, l’unico mercato europeo, insieme alla Grecia, nel quale la ripresa non ha favorito lo sviluppo di posizioni lavorative ad alto tasso di professionalità, generalmente concentrate in ambito tecnico scientifico. I maggiori tassi di crescita, in questo momento, si registrano nelle attività legate al commercio, al trasporto, alla logistica, al turismo e alla ristorazione. Si tratta di settori con alto impiego di manodopera, il che è positivo, ma anche con pochi margini per aumenti di produttività. E se la produttività non aumenta o aumenta poco, mentre in altri paesi aumenta a ritmi maggiori, l’Italia perde competitività rispetto al resto del mondo. Anche se continua il trend positivo delle esportazioni, questo è concentrato in un ristretto numero di aziende molto efficienti, mentre la maggior parte del sistema industriale opera in settori a basso incremento di produttività.

In parallelo, i consumi interni non decollano. Dalla combinazione tra debole domanda interna e scarsi incrementi di produttività derivano salari stagnanti e/o posizioni di lavoro poco qualificate o precarie. Quanto l’instabilità e/o la scarsa qualità del lavoro si protrae per anni, i lavoratori che sono “catturati” in questo girone hanno difficoltà ad accumulare competenze, a crescere professionalmente, a cambiare azienda.

Ci sono poi le agevolazioni del Jobs Act, che facilitano forme di lavoro provvisorio le quali espongono i dipendenti ad essere rimpiazzati con altri lavoratori a costi più bassi, grazie a contratti che si rinnovano da quattro a sei mesi per volta. In Italia, quasi un occupato su otto è a rischio povertà, mentre l’occupazione femminile è tra le più basse in Europa.

Il buon segnale è che, rispetto al 2017, la cassa integrazione – la quale sostituisce la retribuzione ai dipendenti sospesi dal lavoro nel caso di crisi aziendale – è diminuita del 41%. Un piccolo passo avanti, anche se il precariato continua ad essere la causa principale del malessere che attanaglia la nostra società.

Un malessere che si trasfonde in minore attività economica, in un diffuso senso di frustrazione e perdita dell’identità sociale, con effetti negativi sui consumi, sulla formazione di nuove famiglie, sulla ripresa delle nascite, sull’aumento delle domande di mutuo per la casa, con tutto l’indotto che l’edilizia trascina con sé. In sostanza, un circolo vizioso molto difficile da scardinare e trasformare in virtuoso. Forse, solo un forte shock fiscale potrebbe dare quella scossa in grado di rilanciare i consumi e riaccendere il motore della ripresa. Ma il prezzo sarebbe quasi certamente un aumento importante del rapporto deficit/Pil, almeno in una prima fase. La soluzione, ammesso che esista, passa per riforme strutturali molto difficili da far accettare al mondo del lavoro e al settore statale.

© 2018, Thema International