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Prosegue la ripresa delle immatricolazioni all'Università

Secondo i dati del MIUR, il Ministero dell'università e ricerca scientifica, gli immatricolati universitari (cioè gli iscritti al primo anno) sono passati da 290mila nel 2016/2017 a 293mila nel 2017/18. Un aumento di 3mila neo iscritti non è molto, anzi è decisamente poco, ma comunque conferma il trend di recupero che ormai prosegue ininterrotto dal 2013. Per tutti i dieci anni precedenti (2003-2013) gli immatricolati non avevano fatto altro che ridursi in numero, passando da 335mila a un minimo di 270mila/anno. Poiché l’Italia è uno dei paesi col più basso numero di laureati in rapporto alla popolazione, la riduzione aveva suscitato a lungo preoccupazioni in tutto il sistema dell'industria e delle professioni. La ripresa in atto dal 2013 ha - almeno per ora - attenuato la crisi delle matricole.

Stando ai dati delle immatricolazioni 2017/18 rispetto all’anno precedente, le facoltà in maggior rialzo sono, in ordine decrescente, Scienze e tecnologie della navigazione (+55%, da 205 a 320 immatricolati), Restauro beni culturali (+19% da 264 a 315), Scienze biologiche (+17%, da 8400 a 9800) e Biotecnologie (+13% da 6000 a 6800). A seguire, Scienze dell'amministrazione (+11%) e il vecchio Dams (arti, musica e spettacolo, +9%).

Le facoltà in maggior calo sono invece, Geografia (-22%, da 203 a 158), Scienze sociali per la cooperazione (-17%, da 658 a 546), Scienze e tecnologie per l'ambiente (-16%, da 3150 a 2640), Urbanistica (-13%, da 480 a 420), Professioni sanitarie della riabilitazione (-12%, da 2380 a 2100), Zootecnia (-12%, da 1890 a 1670).

Nel complesso, le facoltà più richieste sono quelle di area ingegneristica (43mila immatricolati, +1%), seguite da quelle di area economica (42mila, +4%) e da quelle di area medico-sanitaria, incluse infermieristica, veterinaria e odontoiatria (36 mila, -5%). L’area giuridica è al quarto posto, ma a grande distanza (21mila, invariata), insieme con l’area linguistica (stessi valori).

Non è facile trovare un pattern chiaro in questi dati. Sicuramente, la tendenza di lungo periodo vede una crescita costante delle facoltà tecnico-scientifiche e un lento ma inesorabile calo di quelle umanistiche. Nei tanti dati spicca una vera anomalia, ovvero il forte numero di immatricolati nei corsi per le scienze della formazione. Un paese con tassi di natalità così bassi come l'Italia non sembra dare grandi prospettive a insegnanti e docenti...

In questo contesto, le imprese faticano ancora a trovare neolaureati che soddisfino le loro esigenze. Secondo un’indagine recente, il 59% delle aziende cerca ingegneri elettronici e industriali, due specializzazioni poco seguite dagli studenti. “I casi sono due: o le aziende impongono requisiti troppo elevati, e quindi poco realistici, oppure le università formano figure tecniche in modo inappropriato”, ha dichiarato Armando Zambrano, Presidente del Consiglio Nazionale Ingegneri. Il mondo delle imprese ripete continuamente che l’università italiana non prepara i giovani al lavoro come dovrebbe. Le università dei paesi anglosassoni sono considerate un esempio per il loro orientamento verso una formazione meno teorica, più immediatamente applicabile alla realtà lavorativa. Inoltre, quelle università offrono agli studenti servizi di consulenza per trovare lavoro (“job placement”), oltre a numerose attività associative e di volontariato, solitamente molto ben viste dai recruiter aziendali.

La causa principale di questo difficile incontro con il mondo del lavoro, secondo gli atenei italiani, risiede nella mancanza di risorse umane e finanziarie, da cui deriva una forte spinta alla fuga di cervelli. A lasciare l’Italia per andare a lavorare all’estero sono soprattutto i neolaureati più qualificati. Tra i paesi di maggiore espatrio intellettuale figura la Germania, dove l’economia funziona, la burocrazia non soffoca e si premia il merito. Solo nel 2015, circa 20mila giovani italiani hanno trovato lavoro in Germania. Una migrazione comprensibile: basti pensare che in Baviera il tasso di occupazione è pari al 3%, mentre in Calabria è del 59%.

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