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Reddito di cittadinanza: è anche una questione di termini

Non è chiaro se chiamarlo reddito di cittadinanza o in altro modo.

Tra mille polemiche, vi è confusione sulla definizione di questa misura, che in Italia dovrebbe partire dal marzo 2019, quando saranno ridefiniti i compiti dei centri per l’impiego. Chi ha un reddito inferiore a determinati parametri Isee (variabili a seconda del numero di famigliari a carico) potrà rivolgersi a uno di questi centri o all’Inps per chiedere un contributo economico mensile che gli consenta di raggiungere la soglia di 780 euro/mese, a condizione di accettare almeno una delle tre proposte di lavoro che gli saranno presentate. I beneficiari dovranno accettare di sottoporsi a controlli incrociati sui propri redditi, e sconteranno il carcere nel caso emergano truffe. Potranno ottenere l’integrazione i maggiorenni residenti in Italia da almeno 10 anni, disoccupati o inoccupati (inclusi i pensionati). L’intervento sarà accompagnato dalla cancellazione dell’attuale reddito di inclusione (da 187 euro/mese per famiglie monocomponenti a 539 per famiglie da 6 componenti in su). L’assegno dovrebbe essere erogato con strumenti digitali: una carta Bancomat oppure una app.

Quali che saranno i dettagli dell’intervento, la terminologia scelta non sembra appropriata, perché, in linea di principio, il reddito di cittadinanza dovrebbe consistere in un importo erogato dallo Stato a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro reddito e dal loro status lavorativo. Per esempio, come accade in Alaska, dove basta essere statunitensi e residenti da almeno un anno nello Stato per beneficiare di un’entrata di circa mille dollari al mese, senza distinzioni di reddito, età e occupazione. Un introito uguale per tutti, insomma, e non un sussidio rivolto solo a chi non ha lavoro o vive in povertà. In sostanza, il reddito di cittadinanza che il governo sta approntando dovrebbe essere più propriamente chiamato “reddito di base” o “reddito minimo”.

Va ricordato che in Europa il reddito di base è molto diffuso, ed ha origini antiche. Già nel ‘700, il filosofo illuminista britannico Thomas Paine sosteneva l’opportunità di introdurre un’erogazione monetaria regolare a tutti coloro che avessero residenza in un determinato luogo. Nel 1795, a Spennhamland, nell’Inghilterra del Sud, i magistrati obbligarono le parrocchie a integrare i salari dei lavoratori in difficoltà. Ancora oggi il Regno Unito prevede l’income support, concesso a chi non ha reddito e non lavora a tempo pieno. Un vero e proprio sussidio mirato. A proporre il primo vero reddito di cittadinanza, tra il 1969 e il 1970, fu il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon (repubblicano atipico sotto questo aspetto), che suggerì l’assegnazione di una rendita di base a tutti gli americani. La sua proposta, tuttavia, non incontrò il favore del Congresso e fu respinta.

Tornando all’oggi, molta incertezza grava sulla reale entità dell’operazione. Secondo il Documento Programmatico di Bilancio per il 2019, è previsto uno stanziamento di 9 miliardi, di cui 7,1 destinati al vero e proprio Fondo per il reddito di cittadinanza, 1 miliardo indirizzato al potenziamento dei Centri per l’impiego e 900 milioni per la “pensione di cittadinanza”, ovvero il RdC destinato ai pensionati.

Inizialmente, il governo aveva previsto di stanziare 17 miliardi per l’intera operazione, stimando una platea di beneficiari di 9 milioni di persone, ma i paletti fissati da Bruxelles hanno costretto il governo a dimezzare l’importo. Quasi certamente, considerati i numerosi vincoli e obblighi cui i richiedenti devono sottostare, i percettori del reddito di cittadinanza saranno molto inferiori ai 9 milioni previsti.

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