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Xi Jinping, l’anti-Trump, spinge sullo scacchiere asiatico

Il presidente cinese vuole essere l’eroe della riconquista del potere dell’Impero di Mezzo in Asia.

nota della redazione

La ruota gira, in Asia orientale.

Il mese scorso, il primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong, si è recato in visita ufficiale dall’“Imperatore rosso” Xi Jinping, alla vigilia del congresso del Partito Comunista Cinese. Quasi 40 anni fa, suo padre, il visionario Lee Kuan Yew, riceveva Deng Xiaoping, offrendo, a mo’ di consiglio, la ricetta del miracolo economico di Singapore a una Cina duramente provata dall’era maoista. « A quel tempo la Cina viveva una fase diversa, e noi potevamo aiutarla ad aprirsi. Oggi è molto più sviluppata », ha dichiarato l’erede singaporiano, riconoscendo così, implicitamente, che la storia ha visto rovesciarsi i rapporti di forza in favore della seconda potenza mondiale. Ormai, la piccola città-Stato di sei milioni di abitanti si sente minacciata dal gigante che rialza la testa. La “via della seta” dello Zio Xi rimette in discussione la supremazia di Singapore nel distretto di Malacca, creando corridoi di comunicazione verso l’Oceano Indiano che attraversano la Malesia e la Birmania. E Pechino non tratta più coi guanti bianchi l’antica colonia inglese, oggi alleata degli Stati Uniti. L’anno scorso ha anche sequestrato alcuni mezzi blindati singaporiani, di passaggio a Hong Kong dopo aver partecipato a un’esercitazione militare con Taiwan.

La politica del fatto compiuto                 

L’economia più sviluppata dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico) prova a difendere la propria indipendenza espellendo un universitario cinese e…inviando ministri di origine indiana o malese in visita presso Xi Jinping. «Singapore torna a ribadire il suo carattere multirazziale per dimostrare a Pechino di non essere un fratello minore tenuto all’obbedienza», spiega Yeo Lay Hwee, ricercatrice all’Istituto Affari Internazionali di Singapore.

La “Città del leone”, la cui popolazione è per il 75% di origine cinese, deve la sua prosperità ai commerci che transitano nel Mar Cinese Meridionale, dove la Cina conquista terreno costruendo isole artificiali, in violazione delle convenzioni ONU. E, all’interno dell’Asean, Singapore si sente sola nella battaglia diplomatica contro questa politica del fatto compiuto. I paesi più poveri, come il Laos e la Cambogia, da lungo tempo sono solo dei satelliti. Ormai anche la Malesia, a maggioranza musulmana, è entrata nell’orbita cinese, spalancando le porte ai suoi investimenti, offrendo in cambio linee ferroviarie e porti strategici. L’ex primo ministro malese, Mahatir, teme, inoltre, l’installazione di basi militari cinesi sulla penisola, come quella che l’Esercito popolare di liberazione (nome ufficiale dell’esercito cinese) ha costruito a Gibuti, nel Corno d’Africa.

Nelle Filippine, il flirt del presidente Rodrigo Duterte con la Cina lascia il Vietnam isolato in prima linea contro il suo vicino che rialza la testa. Hanoï ha dovuto piegarsi di fronte al suo nemico storico, e di recente ha rinunciato a trivellare un giacimento offshore nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale, sotto la minaccia di un intervento militare da parte del governo di Pechino. Quest’ultimo avanza rivendicazioni sul 90% di quell’area marittima, secondo il cosiddetto tracciato “a lingua di bufalo”. Tali rivendicazioni fanno parte del “sogno cinese” che Xi Jinping promette sin da quando è salito al potere nel 2012, ricavandone un’accresciuta popolarità fra le masse.

«Si tratta di un espediente per fomentare il nazionalismo nell’opinione pubblica», questa l’analisi di Zhang Lifan, storico indipendente con base a Pechino. Il “principe rosso” vuole essere colui che rimetterà l’Impero di Mezzo al centro dell’Asia, riallacciandosi a una storia secolare – interrotta dalle aggressioni coloniali occidentali del XIX secolo – che vedeva i principati delle regioni circostanti assoggettati e obbligati a versare tributi a Pechino. Una parentesi umiliante che lo Zio Xi spera di chiudere, seguendo le orme di Mao e di Deng, ai quali conta di essere associato nel Pantheon del Partito, al termine del congresso nazionale. Per vincere questa scommessa geopolitica, il presidente può contare su un congiuntura favorevole, che va ad aggiungersi all’espansione della potenza strutturale dell’economia cinese. L’elezione di Donald Trump, presidente protezionista, inventore dell’ “America first”, gli offre un assist nella riconquista del potere nell’area dell’Asia e del Pacifico. «La Cina ha vinto le elezioni americane», titolava all’epoca la prestigiosa rivista Foreign Policy. Un anno dopo, questa analisi viene confermata. Il ritiro unilaterale di Washington dall’accordo commerciale del Partenariato Trans-Pacifico (TPP) lascia le economie della regione senza alternativa di fronte alla potenza di fuoco, finanziaria e commerciale, dei gruppi cinesi.

Bombe a orologeria

Sul fronte militare, Trump disorienta anche i suoi alleati più stretti, come la Corea del Sud, chiedendo ulteriori contributi finanziari nel campo della difesa, proprio mentre la tensione con Pyongyang (Corea del Nord) sale alle stelle. A Seul, l’opinione pubblica teme più le minacce di attacchi preventivi sbandierate dal presidente americano, che le provocazioni del “Leader supremo” Kim Jong-Un. Il colmo.

L’ossessione nordcoreana del presidente americano mette in difficoltà anche la Cina, ma consente a Trump di distogliere l’attenzione pubblica da altri motivi di contrasto bilaterale, come il deficit commerciale (statunitense) o le dispute in materia di confini marittimi. Si tratta di dossier incandescenti, vere e proprie bombe pronte a esplodere nel corso della prima visita ufficiale di Trump a Pechino, prevista nel novembre 2017. Di fronte a un presidente statunitense in difficoltà sul fronte interno, il vento della storia sembra soffiare nelle vele di Xi Jinping, il quale ha tre anni di tempo per approfittare dell’occasione.

© Sébastien Falletti, 2017, Le Figaro